Note di neurologia

questa pagina contiene note su temi di neurologia

L'intento  è di fornire informazioni scientificamente corrette e aggiornate, tradotte in un linguaggio comprensibile ai non addetti ai lavori.  

Morbo di Parkinson

Il Morbo di Parkinson (MP) è associato da molti al tremore. In realtà questo è solo uno dei sintomi e non sempre il più importante.

Come si presenta il Morbo di Parkinson?

La malattia si manifesta con rigidità, instabilità posturale, lentezza e povertà di movimenti volontari. È frequente anche affaticamento progressivo e riduzione di ampiezza dei movimenti, in particolare di quelli ripetitivi o alternati, insieme a riduzione della mimica facciale. Il tremore è tipicamente del tipo “a riposo”, evidente, per esempio, quando si appoggiano le mani sulle ginocchia. Il disturbo è in genere asimmetrico. Spesso i sintomi iniziali sono dolenzia alle grosse articolazioni e sensazione di durezza di gruppi muscolari. Non è infrequenze che all’inizio del disturbo persone vadano prima da un ortopedico o reumatologo che dal neurologo.

Recentemente è cresciuta la consapevolezza della presenza di sintomi non-motori, tra cui depressione, ansia e disturbi del sonno, che aumentano gradualmente con la progressione della patologia. I sintomi non-motori dimostrano che le alterazioni anatomo-patologiche e biochimiche della malattia superano i confini dell’area dopaminergica nigro-striatale, zona profonda del cervello considerata inizialmente come l’unica ad essere interessata dal Parkinson. Quindi, le alterazioni vanno anche oltre il cervello ed interessano l'apparato olfattorio, il sistema nervoso enterico o il sistema simpatico cardiaco.

 

In cosa consiste la diagnosi di questa patologia?

La diagnosi è tipicamente clinica, cioè basata sulla valutazione dei sintomi e dei segni rilevabili durante la visita neurologica. È opportuno riconoscere che altre patologie potrebbero essere confuse con MP. Per esempio, la lentezza del movimento può riflettere disfunzioni piramidali e cerebellari, oppure la ridotta mimica facciale può esprimere una depressione, mentre la compromissione di movimenti alternati può dipendere da distonia o problemi muscolo-scheletrici. Sintomi o segni simili a quelli del MP possono essere, almeno in parte, associati a lesioni ischemiche di aree specifiche del cervello. 

Attualmente, esami come il DAT-Scan con SPECT permettono di aiutare la diagnosi in casi dubbi. Sono in corso ricerche per valutare altri approcci diagnostici basati su neuroimaging con RMN o con esame del liquor da prelevare mediante puntura lombare. Ma si tratta di ambiti di ricerca, senza ricadute assistenziali al presente e comunque riguardanti casi di diagnosi dubbia.

 

Quali sono le principali cause?

I fattori che causano la malattia sono sconosciuti. Sono state fatte ipotesi sul ruolo di agenti tossici ambientali o interni all'organismo. Le ipotesi patogenetiche sono molto sofisticate e vanno oltre lo scopo di queste righe. Una percentuale molto piccola di MP ha una base genetica. Benché forme sporadiche e genetiche di MP condividano molte caratteristiche cliniche, le forme famigliari hanno caratteristiche tipiche, tra cui esordio precoce, disturbi cognitivi o distonia, con diversità tra le diverse forme. Queste forme famigliari sono associate a mutazioni identificate. Si tratta di mutazioni che causano la malattia. Recentemente studi indipendenti di Genome-Wide Association hanno identificato fattori di rischio genetici, cioè una predisposizione su base genetica alla malattia. Quindi bisogna distinguere le forme a trasmissione genetica che sono rarissime, e le forme in cui c’è una predisposizione genetica non sufficiente a causare la malattia, che sarebbe indotta da fattori di per sé potenzialmente innocui in persone non predisposte. Indagini genetiche hanno senso in ambito di ricerca e sono generalmente non necessarie o utili nella pratica assistenziale.

Morbo di Parkinson: quando i farmaci non sono sufficienti

Il trattamento del Morbo di Parkinson rappresenta uno dei principali successi in ambito neurologico, anche se, attualmente, i farmaci indicati sono sintomatici. Questi farmaci cioè riducono l’espressione clinica della malattia, ma non alterano la progressione.

 

Esistono delle terapie che possono combattere la malattia? 

La possibilità di ridurre i sintomi della patologia grazie alla somministrazione di determinati farmaci è già un grande passo in avanti, poiché è possibile migliorare significativamente la qualità di vita di molti pazienti. Ma sarebbe ovviamente desiderabile avere farmaci che modificano il progredire della malattia.

La levodopa rimane il farmaco più efficace. Diversi farmaci dopamino-agonisti non presentano le complicanze associate all'uso prolungato di levodopa, ma presentano effetti collaterali, come edema alle gambe, sonnolenza giornaliera, disordini del controllo degli impulsi (per esempio, induzione al gioco d'azzardo), allucinazioni, fibrosi. I dopamino-agonisti possono essere usati da soli o in aggiunta alla levodopa. Esistono anche altri farmaci con meccanismi di azione diversi o che potenziano la levodopa interferendo con gli enzimi che la degradano nel tessuto nervoso. La scelta del miglior trattamento viene effettuata su base individuale, dopo aver valutato la relazione rischi/benefici delle terapie farmacologiche disponibili. 

È utile sottolineare che l’attenzione terapeutica è spesso troppo focalizzata sui farmaci. Vale ricordare l’importanza della fisioterapia, della correzione di stili di vita, della dieta e terapia occupazionale e l’attenzione verso i sintomi non-motori che sono rilevanti ai fini della qualità di vita, spesso più di quelli motori.

 

Quando i farmaci non sono sufficienti esiste la possibilità di intervenire chirurgicamente?

Negli ultimi due decenni la chirurgia è diventata un trattamento accettabile o indicato in soggetti i cui sintomi motori non possono essere ben controllati dai farmaci. Questo vuol dire che l’opzione chirurgica può essere considerata quando c’è una risposta ai farmaci, ma tale risposta è insufficiente per la breve durata o perché associata ad effetti collaterali intensi. L’intervento ha ovviamente pro e contro che rendono la scelta spesso difficile. 

 

La stimolazione profonda, Deep Brain Stimulation (DBS), mediante impianto stereotassico intracerebrale di elettrodi, è diventata l’opzione chirurgica di prima scelta. Si tratta di impiantare elettrodi profondamente nel cervello, con precisione assoluta sul target. Questi elettrodi saranno collegati ad uno stimolatore e batteria che la persona dovrà portare con sé. Il rischio chirurgico è minimo, ma presente. Questa procedura ha effetti negativi sulla sfera comportamentale e cognitiva, come:

·       Depressione

·       Apatia

·       Ansia

·       Impulsività

·       Alterazioni della memoria

·       Deficit cognitivi

 

Questi effetti avversi non appaiono in modo costante e spesso sono transitori. È verosimile che lo stato neuropsichiatrico precedente alla chirurgia giochi un ruolo rilevante o determinante. Prima di poter suggerire l’opzione chirurgica è necessario valutare fattori sociali, psicologici e comorbidità. Secondo la American Parkinson Disease Association (https://www.apdaparkinson.org) “I pazienti che sono considerati buoni candidati sono quelli con una risposta robusta a levodopa, senza problemi cognitivi o psichiatrici significativi e senza problemi di equilibrio. La procedura può aiutare i pazienti con tremori resistenti ai farmaci. Può anche aiutare i pazienti che hanno significative fluttuazioni motorie in cui la risposta del farmaco varia durante il giorno e possono verificarsi discinesie o movimenti extra come effetto collaterale del trattamento”. 

Come alternative alla DBS sono da considerare le tecniche di MRI-guided Focused UltraSound (MRgFUS) e la Gamma Knife Radiousurgery. L’obbiettivo, anche in questo caso, è di “disattivare” specifiche aree cerebrali. Questi approcci hanno il vantaggio di non richiedere intervento neurochirurgico, ma provocano una lesione irreversibile (a differenza della inattivazione funzionale reversibile da DBS). Inoltre, ci sono ancora relativamente pochi dati su questi approcci, soprattutto per quanto riguarda gli effetti collaterali e la durata nel tempo degli effetti terapeutici. Si tratta di un campo in rapida evoluzione e queste parole potrebbero presto dover essere aggiornate. Al momento la decisione sull’opportunità di scegliere DBS o uno di questi trattamenti alternativi richiede l’intervento di un team di specialisti oltre, ovviamente, a corretta informazione per il paziente dei pro e contro. 

 

Esistono approcci non chirurgici?

Da circa 4 decenni persiste il tentativo di rimpiazzare le cellule perdute della sostanza nera (la zona del cervello probabilmente più coinvolta nel Morbo di Parkinson) con trapianti di cellule o tessuto. I risultati sono stati sempre inconsistenti e solo sintomatici, ma i tentativi continuano con tecniche sempre più sofisticate. Per esempio, molto recentemente ricercatori di vari gruppi americani (N Engl J Med 2020;382:1926-32) hanno impiantato in cervelli di soggetti con la malattia cellule derivate dalla cute dei soggetti stessi e trattate in vitro per indirizzarle a differenziarsi in cellule simili a quelle perdute. Si tratta di tecniche molto sofisticate, con risultati promettenti, ma allo stato presente da considerare soltanto in ambito di ricerca.

News - Trattamento con ultrasuoni nel M. di Parkinson

Tratto con piccole rielaborazioni da: Krishna, Vibhor, et al. "Trial of Globus Pallidus Focused Ultrasound Ablation in Parkinson’s Disease." New England Journal of Medicine 388.8 (23 Febbraio 2023): 683-693

Negli anni 90, alcuni studi hanno dimostrato che la chirurgia stereotattica mirata al globo pallido interno (una lesione anatomica ottenuta con radiofrequenze) riduce i sintomi motori della malattia di Parkinson (de Bie, Rob MA, et al. "Unilateral pallidotomy in Parkinson's disease: a randomised, single-blind, multicentre trial." The Lancet 354.9191 (1999): 1665-1669). Fu presto dimostrato che i risultati ottenuti con questa tecnica, altamente invasiva e irreversibile, potevano essere ottenuti con la elettrostimolazione profonda (Merello, Marcelo, et al. "Unilateral radiofrequency lesion versus electrostimulation of posteroventral pallidum: a prospective randomized comparison." Movement disorders: official journal of the Movement Disorder Society 14.1 (1999): 50-56)

La stimolazione cerebrale profonda è molto meno invasiva, può essere eseguita in entrambi gli emisferi cerebrali per controllare i sintomi bilaterali. Inoltre, le variabili elettriche della stimolazione cerebrale profonda possono essere regolate per controllare il peggioramento dei sintomi o disattivate se necessario. Come risultato di queste caratteristiche, la stimolazione cerebrale profonda è diventata il principale trattamento chirurgico per i pazienti con malattia di Parkinson con risposta fluttuante alla levodopa. Tuttavia, anche la stimolazione cerebrale profonda è una procedura chirurgica e comporta, come la pallidotomia, un modesto rischio di sanguinamento e infezione ed effetti collaterali potenzialmente irreversibili, oltre ad essere intrusiva al punto di risultare inaccettabile per molti pazienti.

La Focused ultrasound ablation (FUSA) è un’alternativa meno invasiva che comporta un’ablazione del Globo Pallido Interno senza incisone chirurgica. La procedura prevede l'erogazione mirata, attraverso RMN, di fasci di ultrasuoni verso l’area cerebrale bersaglio. Inizialmente, le radiazioni termiche sono a bassa energia, in modo da rendere l’intervento reversibile e permettere di eseguire test clinici per rilevare l'efficacia preliminare o gli effetti collaterali e determinare se la posizione del bersaglio sia ottimale, prima di effettuare la lesione permanente. La Food and Drug Administration (FDA) ha approvato la FUSA del talamo per il trattamento del tremore essenziale refrattario dal punto di vista medico e della malattia di Parkinson a predominanza tremorigena. Tuttavia, l'indicazione più comune per la stimolazione cerebrale profonda nella malattia di Parkinson è la risposta fluttuante a farmaci come la levodopa. 

Lo studio di Krishna et al ha testato la sicurezza e l'efficacia della FUSA del globo pallido interno per i pazienti con malattia di Parkinson. Questo studio multicentrico, randomizzato, controllato ha dimostrato che nei pazienti con malattia di Parkinson, il trattamento FUSA focalizzato unilaterale al segmento interno del globo pallido ha ridotto significativamente la discinesia indotta da levodopa. Si sono osservati diversi eventi avversi, che includevano dolore alla testa, vertigini e nausea, disartria e disturbi motori di gravità da lieve a moderata.

Lo studio, nel complesso dimostra l'ablazione ecografica pallidale migliora la funzione motoria o riduce la discinesia in soggetti con Parkinson in cui la terapia farmacologica è insoddisfacente. Ma è associata a eventi avversi. Sono necessari studi più lunghi e più ampi per determinare l'effetto e la sicurezza di questa tecnica nelle persone con malattia di Parkinson (Krishna, Vibhor, et al. "Trial of Globus Pallidus Focused Ultrasound Ablation in Parkinson’s Disease." New England Journal of Medicine 388.8 (2023): 683-693.)

Morbo di Parkinson e ferro

Il Morbo di Parkinson è una condizione neurodegenerativa caratterizzata dalla perdita di neuroni dopaminergici nella substantia nigra e dall'accumulo diffuso di α-sinucleina e Corpi di Lewy nel sistema nervoso centrale e periferico. L'aumento del contenuto di ferro nei neuroni nigrostriatali è stato implicato nella fisiopatologia della malattia di Parkinson, sebbene il ferro sia necessario per diversi effetti fisiologici. 

L'accumulo di ferro può comunque causare stress ossidativo e avviare meccanismi di morte cellulare. Alcune ricerche preliminari hanno mostrato che alcune sostanze che legano il ferro (cosiddetti chelanti, come il deferiprone) sono efficaci nei modelli animali di Morbo di Parkinson, ma i loro effetti sulla progressione della malattia non sono chiari.

Uno studio è stato recentemente condotto su 372 soggetti con malattia di Parkinson di nuova diagnosi che non avevano mai ricevuto levodopa per verificare l’ipotesi che il deferiprone rallenti la progressione della malattia.

I risultati hanno mostrato che il trattamento con deferiprone è associato a punteggi peggiori nelle misure di parkinsonismo rispetto ai soggetti trattati con placebo per un periodo di 36 settimane.

Galasko, Douglas, and Tanya Simuni. "Lack of Benefit of Iron Chelation in Early Parkinson’s Disease." New England Journal of Medicine 387.22 (2022): 2087-2088.

Devos, David, et al. "Trial of deferiprone in Parkinson’s disease." New England Journal of Medicine 387.22 (2022): 2045-2055

Demenza o Disturbo Neurocognitivo?

Conviene introdurre l’argomento precisando il significato di alcuni termini che useremo. E conviene farlo con un esempio, per brevità. Tutti sappiamo per esperienza cos’è un’influenza: quell’insieme di sintomi e segni che includono febbre, dolori muscolari, debolezza, dolore di testa e difficoltà respiratoria. Questo insieme si chiama sindrome. Alla base dell’influenza c’è un’infezione da virus. L’infezione rappresenta la malattia. E la malattia è causa della sindrome. Il medico, tipicamente, cerca di identificare la sindrome e da qui fa ipotesi su quale sia la malattia che presumibilmente causa quella sindrome. Lo schema sembra semplice, ma spesso non lo è. 

Uno dei problemi diagnostici è che il nesso tra sindrome e malattia non sempre è univoco. Diverse malattie possono infatti causare simili sindromi. La stessa malattia può provocare sindromi diverse. Per questo i medici hanno spesso difficoltà a trovare la causa di certi disturbi. 

Questo tipo di problema è ben rappresentato nel campo delle demenze. Il problema è anche amplificato, da un equivoco semantico. La parola “demenza” è usata infatti, anche nella letteratura scientifica, a indicare sia la sindrome che la malattia.

Nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), gli autori propongono di sostituire la parola “demenza” con “disturbo neurocognitivo”. La motivazione di questo cambiamento riguarda soprattutto l’opportunità di combattere lo stigma alimentato dai pregiudizi che la parola demenza ha veicolato negli anni. L’altro aspetto riguarda l’obiettivo di risolvere l’equivoco sopra citato. 

Da alcuni anni quindi (Sachdev et al. 2014) si tende a indicare la sindrome con “disturbo neurocognitivo”, mentre la parola “demenza” rimane a indicare la malattia. Sarà quindi appropriato (solo per fare un esempio)dire che la demenza (o malattia) di Alzheimer è causa di disturbo neurocognitivo. Il neurologo, difronte al disturbo neurocognitivo potrà individuare aspetti che suggeriscono una demenza di Alzheimer. Si potrà allora parlare di disturbo neurocognitivo tipo Alzheimer.

La questione, ovviamente, non è solo semantica. Il compito diagnostico del neurologo è individuare il tipo di disturbo neurocognitivo e sulla base delle sue specifiche caratteristiche fare inferenze sul tipo di malattia che che lo provoca. Il rapporto, però, tra sindrome e malattia è tutt’altro che univoco, contrariamente a quanto si pensava solo pochi anni fa. Abbiamo la stessa malattia (o demenza) che può causare diversi disturbi neurocognitivi e lo stesso disturbo neurocognitivo può essere causato da diverse malattie. Succede così che mentre è spesso relativamente facile riconoscere che esiste un disturbo neurocognitivo, è molto difficile allo stato attuale fare diagnosi sicura di malattia.

Esistono comunque elementi comuni a tutti i disturbi neurocognitivi, elementi che infatti costituiscono i criteri diagnostici: Il Disturbo Neurocognitivo Maggiore è definito come un persistente, progressivo declino in uno o più domini cognitivi, tale da comportare una limitazione significativa nella vita sociale e occupazionale e tale da compromettere l’indipendenza nelle attività della vita quotidiana. Il termine “declino” è usato per indicare una differenza rispetto a un livello di performance precedente.

Ed esistono elementi comuni a tutte le forme di demenze: una patologia neurodegenerativa, a esordio lento, progressiva, in gran parte caratterizzata dall’accumulo di proteine anomale all’interno di neuroni o glia, spesso anche all’interno delle cellule dei vasi sanguigni, o da accumuli di proteine anomale extracellulari, tra una cellula e l’altra.

Disturbi Neurocognitivi

Disturbo Neurocognitivo Maggiore

Il Disturbo Neurocognitivo Maggiore si riferisce a un persistente, progressivo declino (il “declino” definito come differenza rispetto a un livello di performance precedente) in uno o più domini cognitivi, tale da comportare una limitazione significativa nella vita sociale e occupazionale e tale da compromettere l’indipendenza nelle attività della vita quotidiana. Storicamente la definizione di demenza si è basata sul deficit di memoria, come dominio necessariamente, o prevalentemente, compromesso. Il disturbo di memoria rappresenta infatti il sintomo principale della tipica forma amnestica di demenza di Alzheimer, ritenuta la più frequente.

Negli anni, le conoscenze sono ovviamente aumentate e hanno contribuito a modificare i criteri diagnostici e è cresciuta la consapevolezza che il disturbo neurocognitivo è multiforme e può includere il deficit di altri domini cognitivi, con o senza disturbo di memoria. L’espressione clinica può quindi essere variegata.

La nozione che il disturbo possa presentarsi senza deficit di memoria è stata recentemente formalizzata dall’introduzione di nuove definizioni disturbo neurocognitivo, che tengono conto della pletora di espressioni cliniche possibili (Jack et al. 2011). La definizione attuale di Disturbo Neurocognitivo Maggiore (NCD) richiede quindi la compromissione obiettiva in uno o più domini cognitivi preferibilmente documentata da test neuropsicologici, tale da interferire con l’indipendenza nella vita quotidiana (Sachdev et al. 2014). I domini cognitivi includono:  complex attention, executive function, learning and memory, language, perceptual–motor, or social cognition.

Il termine Disturbo Neurocognitivo Maggiore, quindi, è preferito a “demenza”, per: ridurre lo stigma associato al nome; rendere esplicita la differenza tra sindrome e malattia; definire l’abbandono del disturbo di memoria come requisito per la diagnosi. 

Il Disturbo Neurocognitivo Maggiore si presenta infatti in varie forme sindromiche, anche se causato dalla stessa malatia. Per esempio, oltre alla “classica” espressione amnestica, la demenza di Alzheimer include presentazioni atipiche, indicate come posterior cortical atrophy (PCA), primary progressive aphasias (PPA), corticobasal syndrome (CBS), and frontal lobe syndrome (FLS)

MCI

Mild Cognitive Impairment (MCI) o Disturbo Neurocognitivo Minore differisce dal “Maggiore” per la mancanza d’interferenza con l’indipendenza nelle attività della vita quotidiana. Valutare la “mancanza d’interferenza” può essere difficile nelle fasi iniziali (come vedremo) e comunque la valutazione non potrà essere priva di una quota di soggettività. I criteri diagnostici presenti in letteratura non sono esattamente identici e comunque si prestano a interpretazioni più o meno restrittive. Per esempio, consideriamo una persona con modesti disturbi della memoria, tali da non interferire con la vita quotidiana e il lavoro, ma che inducano la persona a un maggiore sforzo o a impiegare procedure di compensazione per le difficoltà iniziali. Queste procedure di compensazione possono essere considerate “normali” e quindi prive di significato diagnostico. 

Persone con MCI sono eterogenee, sia nell’espressione clinica che nella patologia che sottende il disturbo.  

Soggetti con MCI sono anche eterogenei nella prognosi. Circa un terzo dei soggetti con MCI sviluppa un Disturbo Neurocognitivo Maggiore nei susseguenti 3-10 anni. Il 10% to 15% sviluppa un Disturbo Neurocognitivo Maggiore nell’anno successivo. Dopo 5 anni, 25-30% dei soggetti ritorna a normal cognitive function. Quindi solo 50%-70% dei soggetti MCI sviluppa la sindrome tipica della demenza. I vari studi hanno usato criteri diagnostici di MCI lievemente diversi e forse questo dà ragione dei diversi risultati. Per esempio, in letteratura si trovano definizioni di MCI lievemente diverse, con effetti sui dati relativi alla prevalenza. Una definizione restrittiva richiede … both subjective memory complaints and no impairment of complex activities of daily living (ADL) such as driving and paying bills; la definizione più inclusive richiede … no subjective memory complaints and required impaired ADL. Una terza definizione “intermedia” richiede solo … subjective memory complaints; la quarta definizione … no impairment of ADL (Fisk, Merry, and Rockwood 2003).  La definizione di MCI più usata è quella che corrisponde ai criteri della Mayo Clinic e che corrisponde anche ai criteri chiave del National Institute of Aging–Alzheimer’s Association (NIA-AA): 1) the person is neither normal nor has dementia; 2) there is evidence of cognitive deterioration shown by either objectively measured decline over time or subjective report of decline by self or informant, in conjunction with objective cognitive deficits; and 3) activities of daily living are preserved and complex instrumental functions are either intact or minimally impaired (Carrillo et al. 2013). 

Il fenomeno è diffuso. La prevalenza di MCI è di 4-19% in persone oltre i 65 anni di età, con variabilità che dipende dal tipo di studi condotti e dalla definizione di MCI usata per l’inclusione.  La prevalenza del MCIvaria dal 1 al 3% nella popolazione generale.

Nella pratica clinica

Nella pratica clinica, MCI deve essere concettualizzato come una condizione di probabilità, di rischio, utile da riconoscere per mettere in atto una prevenzione rigida. Sempre più dati infatti confermano il vantaggio di uno stile di vita/dieta appropriato, soprattutto in questa situazione di rischio. Rilevante, sul piano dell’assistenza medica, è anche la nozione che innocue espressioni di cambiamenti emotivi o cognitivi associati all’età possono essere confusi con MCI, provocando preoccupazione e stress nel soggetto e familiari. Gli stessi disturbi possono riflettere episodi depressivi o problemi internistici che devono essere oggetto di interventi terapeutici. 

Altro punto rilevante e controverso riguarda l’ipotesi che un graduale, lento, declino cognitivo sia un processo normale associato all’eta, e che quindi il fenomeno non sia da considerare di sostanziale interesse medico, ma soprattutto socio-sanitario in senso lato. Un recente lavoro su oltre mille persone, seguite fino a 24 anni con test cognitivi annuali e con valutazione anatomopatologica post-mortem per 9 marker (Alzheimer disease pathology, Lewy bodies, transactive response DNA-binding protein 43 pathology, hippocampal sclerosis, atherosclerosis, gross infarcts) ha dimostrato che disturbi cognitivi dell’anziano riflettono soprattutto eventi patologici (Wilson et al. 2020).

In sintesi:


Demenze

Malattie

Alla base delle diverse sindromi ci sono malattie, definite in base all’istopatologia, in gran parte caratterizzata dall’accumulo di proteine anomale all’interno di neuroni o glia, o da accumuli extracellulari (le cosiddette “placche”). 

Alcune informazioni essenziali sono qui (in inglese): https://www.nia.nih.gov/health/what-is-dementia

La grande maggioranza delle malattie che causano demenze non-vascolari può essere categorizzata da sei proteine anomale: amyloid‑β (Aβ), microtubule-associated protein tau, TAR DNA-binding protein 43 (TDP‑43), fused in sarcoma (FUS), α‑synuclein, e prion protein (Elahi and Miller 2017).

Le malattie includono: 

Incerta associazione clinico-patologica

Questa fila di nomi difficili rende ragione della complessità dell’argomento e anche del proliferare di conoscenze che porteranno verosimilmente a vantaggi diagnostici e terapeutici in un prossimo futuro. I neurologi per decenni hanno cercato di fare diagnosi di malattia sulla base dei sintomi e segni associati al disturbo cognitivo. Ma l’associazione tra un certo tipo di manifestazione clinica e la malattia sottesa è molto incerta.

Recenti studi anatomopatologici hanno infatti chiaramente dimostrato che lo stesso quadro patologico può dare espressione a differenti sindromi. Allo stesso tempo la stessa sindrome può riflettere patologie da accumulo di diverse proteine anomale. Ne consegue che la tradizionale associazione clinico-patologica che permetteva al clinico di fare inferenze diagnostiche basandosi sulla clinica ha mostrato tutta la sua vacuità. 

Malattia di Alzheimer’s

La malattia di Alzheimer’s è definita sulla base dell’accumulo extracellulare di Aβ (“placche”) e sugli aggregati intracellulari di hyperphosphorylated tau detti neurofibrillary tangles). La malattia ha diverse espressioni cliniche. Oltre al quadro amnestico tipico, le espressioni cliniche includono disturbi neurocognitivi che si manifestano con deficit di linguaggio, deficit visuospaziali o con disturbi delle funzioni esecutive ritenute tipiche di altre malattie. 

Le varianti o forme atipiche sopra menzionate includono:

Posterior Cortical Atrophy (PCA), si manifesta con deficit visivi prominenti, minore deficit di linguaggio e memoria migliori, depressione e più atrofia posteriore alla risonanza magnetica);

Primary Progressive Aphasias (PPA);

Corticobasal Syndrome (CBS), si presenta con rigidità asimmetrica e aprassia, deficit sensoriali corticali, distonia e mioclono o con la sindrome di Richardson caratterizzata da instabilità posturale, cadute precoci inspiegabili, paralisi dello sguardo sopranucleare verticale, disabilità motoria simmetrica e disfagia); 

Frontal Lobe Syndrome (FLS), con predominanza dei disturbi comportamentali rispetto a quelli tipici.

Degenerazione Frontotemporale Lobare (FTLB)

Frontotemporal Lobe Degeneration si manifesta tipicamente con alterazioni comportamentali progressive (Behavioral Variant Frontotemporal Dementia), ma anche con disturbi del linguaggio (Primary Progressive Aphasia) nei vari sottotipi (Non-Fluent Primary Progressive Aphasia, Logopenic Primary Progressive Aphasia, Semantic Dementia, Logopenic Progressive Aphasia). Tali varianti sono associate, in forma non-univoca, a diverse forme patologiche (FTD-TDP, FTDL-FUS, FTD-tau), sporadiche o su base genetica (geni GRN, C9orf72, VCP, TARDP, TBK1, MAPT). Clinicamente ci può essere una sovrapposizione tra le forme cliniche di Fronto-Temporal Dementia e le varianti di Alzheimer’s Disease.

Ci possono essere raramente disturbi del movimento: la cosiddetta sindrome corticobasale e la paralisi soprenucleare progressiva. Altri disturbi includono la FTD con parkinsonismo e la FTD-ALS (Sclerosi Laterale Amiotrofica)

Depletion of TDP-43 is associated with 97% of ALS cases, and around half of FTD cases

Lewy Bodies Dementia

Lewy Bodies Dementia include tipicamente disturbi del sonno e dell’olfatto, allucinazioni visive, perdita di memoria e di capacità di pensiero, confusione.

Progressive Sopranuclear Palsy (PSP) si manifesta con paralisi dello sguardo verticale, disartria, disfagia, e disturbi delle funzioni esecutive, paralisi sopranucleare dello sguardo, disartria, disfagia. 

Corticobasal Degeneration

Corticobasal Degeneration (CBD) include, oltre al declino cognitivo, aprassia, distonia o mioclono.

Ma il confine tra le diverse sindromi è spesso confuso. I clinici erano abituati a basarsi sulla espressione clinica per fare inferenze sulla malattia causa della demenza. Ma questa inferenza non è giustificata dai dati che mostrano una sostanziale debolezza del link clinico-patologico. Tale incertezza apre quesiti nosografici ancora irrisolti.

Vascular cognitive impairment (VCI)

Questo termine include un insieme di sindromi e patologie associate a lesioni vascolari, multiple o diffuse. Il termine include quindi che la vascular dementia, post-stroke dementia, forme di malattie genetiche come CADASIL, altre forme basate su definizioni anatomo-patologiche come subcortical vascular dementia o Binswanger’s disease e altre associate a patologia dei piccoli vasi come cerebral amyloid angiopathy.

Prion diseases

Le malattie da Prioni costituiscono un capitolo a parte e si riferiscono principalmente al Creutzfeldt–Jakob disease nelle forme sporadic, familiare o variant) (Zanusso et al. 2016); 

Gestione dei disturbi comportamentali nelle persone con demenza

Quanto segue è tradotto da istruzioni fornite ai caregiver. 

La fonte è: National Institute on Aging. Alzheimer’s and related Dementias Education and Referral Center. www.alzheimers.gov

https://www.nia.nih.gov/health/frontotemporal-disorders/what-are-frontotemporal-disorders-causes-symptoms-and-treatment#treatment; e 

https://www.nia.nih.gov/health/alzheimers-treatment/how-alzheimers-disease-treated#behavioral

 

“I comportamenti di una persona con alcuni tipi di demenza (per esempio, bvFTD) possono sconvolgere e frustrare la famiglia e altri caregiver. È naturale addolorarsi per la persona perduta, ma è anche importante imparare a convivere al meglio. Comprendere i cambiamenti della personalità e del comportamento, e conoscere come affrontarli può ridurre la frustrazione dei caregiver.

La gestione dei sintomi comportamentali include diversi approcci. 

È utile, anche se difficile, accettare piuttosto che sfidare persone con sintomi comportamentali. Discutere o ragionare con loro spesso non aiuta, perché non possono controllare i loro comportamenti o persino rendersi conto che gli stessi comportamenti sono insoliti o sconvolgenti per gli altri.

Bisogna invece, il più sensibile possibile, capire che è la malattia che parla, non la persona. I caregiver frustrati possono prendere una pausa: fai respiri profondi, conta fino a 10 o lascia la stanza per qualche minuto.

Per affrontare l'apatia, limita le scelte e offri scelte specifiche. Domande come cosa ti piacerebbe fare oggi?, sono più difficili da rispondere rispetto a domande specifiche come vuoi andare al cinema o a fare la spesa.

Cerca di mantenere ogni giorno gli stessi programmi. 

Anche l'ambiente può essere d'aiuto. Le persone dormono meglio nell’ambiente abituale (vedi anche https://www.nia.nih.gov/health/sleep/6-tips-managing-sleep-problems-alzheimers. Se l'alimentazione compulsiva è un problema, i caregiver potrebbero supervisionare il cibo, limitare le scelte alimentari, chiudere a chiave gli armadietti degli alimenti e il frigorifero, e distrarre la persona con altre attività.

 

Sono disponibili farmaci per trattare alcuni sintomi comportamentali. 

Antidepressivi, chiamati inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono comunemente prescritti per trattare la disinibizione sociale e il comportamento impulsivo. Altri farmaci, come i sonniferi, gli ansiolitici, gli anticonvulsivanti e gli antipsicotici richiedono una maggiore cautela per le persone che vivono con l'Alzheimer. 

Questi farmaci devono essere considerati come opzioni solo dopo che: 1) il medico abbia spiegato tutti i rischi e gli effetti collaterali del medicinale; 2) altre opzioni non farmacologiche più sicure non abbiano contribuito a trattare il problema.

Le persone che vivono con l'Alzheimer e i loro caregiver devono fare attenzione agli effetti collaterali di questi farmaci:

I sonniferi vengono utilizzati per aiutare le persone ad addormentarsi e rimanere addormentate. Le persone con Alzheimer (e altre forme di demenza) non dovrebbero usare regolarmente questi farmaci perché rendono la persona più confusa e più propensa a cadere. Ci sono cambiamenti nello stile di vita che le persone possono fare per migliorare il loro sonno. Scopri di più su come dormire bene la notte.

I farmaci ansiolitici sono usati per trattare l'agitazione. Alcuni tipi di ansiolitici, come le benzodiazepine, possono causare sonnolenza, vertigini, cadute e confusione. Per questo motivo, i medici raccomandano di utilizzarli solo per brevi periodi di tempo, se non escluderli del tutto.

Gli anticonvulsivanti sono farmaci a volte usati per trattare l'aggressività grave. Gli effetti collaterali possono causare sonnolenza, vertigini, sbalzi d'umore e confusione.

Gli antipsicotici sono farmaci usati per trattare allucinazioni, deliri e paranoia, agitazione e aggressività. I loro effetti collaterali possono essere gravi, incluso un aumento del rischio di morte in alcune persone anziane con demenza. Questi farmaci dovrebbero essere somministrati alle persone con Alzheimer (o altre forme di demenza) solo quando il medico concorda sul fatto che i sintomi sono gravi.”


Demenza Frontotemporale

Il testo che segue è tradotto e adattato da 

https://www.alzheimers.gov/alzheimers-dementias/frontotemporal-dementia?utm_source=nia-eblast&utm_medium=email&utm_campaign=alzgov-20220920

Demenza Frontotemporale

Che cos’è?

La demenza frontotemporale (FTD) è una sindrome caratterizzata da cambiamenti nel pensiero e nei comportamenti. I sintomi possono includere comportamenti insoliti, problemi emotivi, difficoltà di comunicazione, sfide con il lavoro e difficoltà a camminare. 

La demenza è causata da una famiglia di malattie cerebrali note come degenerazione lobare frontotemporale (FTLD). La FTLD sembra essere la causa più comune di demenza nelle persone di età inferiore ai 60 anni. Circa il 60% delle persone con FTLD ha dai 45 ai 64 anni. Le persone possono convivere con disturbi frontotemporali fino a 10 anni, a volte più a lungo, ma è difficile prevedere il decorso temporale per un singolo paziente. I disturbi sono progressivi, il che significa che i sintomi peggiorano nel tempo. Nelle fasi iniziali, le persone possono avere un solo tipo di sintomo. Man mano che la malattia progredisce, altri tipi di sintomi compaiono quando più parti del cervello sono colpite. 

Oggi non sono disponibili cure o trattamenti che rallentino o arrestino la progressione dei disturbi frontotemporali. Tuttavia, la ricerca sta migliorando la consapevolezza e la comprensione di queste condizioni difficili. 

I disturbi frontotemporali colpiscono i lobi frontali e temporali del cervello. Possono iniziare nel lobo frontale, nel lobo temporale o in entrambi. Inizialmente, i disturbi frontotemporali lasciano intatte altre regioni del cervello, comprese quelle che controllano la memoria a breve termine.

I lobi frontali, situati sopra gli occhi e dietro la fronte sui lati destro e sinistro del cervello, dirigono il funzionamento esecutivo. Ciò include la pianificazione (pensare a quali passaggi vengono prima, secondo, terzo e così via), la definizione delle priorità (fare prima attività più importanti e le attività meno importanti per ultime), il multitasking (spostamento da un'attività all'altra secondo necessità) e il monitoraggio e la correzione degli errori. Quando funzionano bene, i lobi frontali aiutano anche a gestire le risposte emotive. Consentono alle persone di evitare comportamenti sociali inappropriati, come gridare ad alta voce in una biblioteca o a un funerale. Aiutano le persone a prendere decisioni che hanno senso per una determinata situazione. Quando i lobi frontali sono danneggiati, le persone possono concentrarsi su dettagli insignificanti e ignorare aspetti importanti di una situazione o impegnarsi in attività senza scopo. I lobi frontali sono anche coinvolti nel linguaggio, in particolare nel collegare le parole per formare frasi, e nelle funzioni motorie, come muovere le braccia, le gambe e la bocca. 

I lobi temporali, situati sotto e al lato di ciascun lobo frontale sui lati destro e sinistro del cervello, contengono aree essenziali per la memoria, ma svolgono anche un ruolo importante nel linguaggio e nelle emozioni. Aiutano le persone a capire le parole, parlare, leggere, scrivere e collegare le parole con i loro significati. Permettono alle persone di riconoscere gli oggetti e di mettere in relazione le emozioni appropriate con oggetti ed eventi. Quando i lobi temporali sono disfunzionali, le persone possono avere difficoltà a riconoscere le emozioni e rispondere in modo appropriato ad esse. 

Quale lobo - e parte del lobo - è interessato per primo determina quali sintomi compaiono per primi. Ad esempio, se la malattia inizia nella parte del lobo frontale responsabile del processo decisionale, il primo sintomo potrebbe essere la gestione delle finanze. Se inizia nella parte del lobo temporale che collega le emozioni agli oggetti, allora il primo sintomo potrebbe essere l'incapacità di riconoscere oggetti potenzialmente pericolosi: una persona potrebbe raggiungere un serpente o immergere una mano in acqua bollente, per esempio. 

Varianti

I disturbi frontotemporali possono essere raggruppati in vari tipi, definiti dai primi sintomi che i medici identificano quando esaminano i pazienti: 

Nelle fasi iniziali può essere difficile sapere quale di questi disturbi ha una persona perché i sintomi e l'ordine in cui appaiono possono variare ampiamente da una persona all'altra. Inoltre, gli stessi sintomi possono comparire in altre varianti. Ad esempio, i problemi di linguaggio

sono più tipici dell'afasia progressiva primaria (PPA), ma possono anche apparire più tardi nel corso della demenza frontotemporale variante comportamentale.

Behavioral Variant Frontotemporal Dementia 

la demenza frontotemporale variante comportamentale (bvFTD), comporta cambiamenti nella personalità, nel comportamento e nel giudizio. Le persone con questa demenza possono agire in modo strano intorno ad altre persone, con conseguenti situazioni sociali imbarazzanti. Spesso, non sanno o non si preoccupano che il loro comportamento sia insolito e non mostrano alcuna considerazione per i sentimenti degli altri. Nel corso del tempo, possono verificarsi problemi di linguaggio e / o movimento e la persona ha bisogno di più cura e supervisione

In passato, bvFTD era chiamata malattia di Pick, dal nome di Arnold Pick, lo scienziato tedesco che per primo la descrisse nel 1892. Il termine malattia di Pick è ora usato per descrivere raccolte anormali nel cervello della proteina tau, chiamate "corpi di pick". Alcuni pazienti con bvFTD hanno corpi Di Pick nel cervello, e alcuni no. 

Primary Progressive Aphasia 

L'afasia progressiva primaria (PPA) comporta cambiamenti nella capacità di comunicare, di usare il linguaggio per parlare, leggere, scrivere e capire ciò che gli altri stanno dicendo. I problemi con la memoria, il ragionamento e il giudizio non sono evidenti all'inizio, ma possono svilupparsi nel tempo. Inoltre, alcune persone con PPA possono sperimentare cambiamenti comportamentali significativi, simili a quelli osservati in bvFTD, man mano che la malattia progredisce. Esistono tre tipi di PPA, classificati in base al tipo di problemi linguistici visti all'inizio:

·       PPA semantica, chiamata anche demenza semantica, è caratterizzata dalla perdita progressiva della capacità di comprendere singole parole e talvolta di riconoscere i volti di persone familiari e oggetti comuni

·       PPA agrammatica, chiamato anche afasia progressiva non fluente, riguarda la difficoltà a produrre il linguaggio. In fase avanzata, la persona potrebbe non essere più in grado di parlare. Lui o lei può eventualmente sviluppare sintomi di movimento simili a quelli osservati nella sindrome corticobasale

·       PPA logopenica, comporta la difficoltà a trovare le parole giuste durante la conversazione, ma può capire parole e frasi. La persona non ha problemi con la grammatica

Sindrome corticobasale (CBS)

La CBS può essere causata dalla degenerazione corticobasale: atrofia graduale e perdita di cellule nervose in parti specifiche del cervello. Questa degenerazione provoca la progressiva perdita della capacità di controllare il movimento, in genere a partire dai 60 anni circa. Il sintomo più importante può essere l'incapacità di usare le mani o le braccia per eseguire un movimento nonostante la forza normale (chiamata aprassia). I sintomi possono comparire prima su un lato del corpo, ma alla fine entrambi i lati sono interessati. Occasionalmente, una persona con CBS prima ha problemi di linguaggio o difficoltà a orientare gli oggetti nello spazio e in seguito sviluppa sintomi di movimento. 

Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP)

PSP causa problemi con l'equilibrio e la deambulazione. Le persone con il disturbo in genere si muovono lentamente, sperimentano cadute inspiegabili, perdono l'espressione facciale e hanno rigidità corporea, specialmente nel collo e nella parte superiore del corpo, sintomi simili a quelli del Parkinson. Un segno distintivo della PSP è il problema con i movimenti oculari, in particolare guardando in basso. Questi sintomi possono dare al viso uno sguardo fisso. Possono anche svilupparsi problemi comportamentali. 

Demenza Frontotemporale con Parkinsonismo

Disturbi correlati al movimento includono la demenza frontotemporale con parkinsonismo e la demenza frontotemporale con sclerosi laterale amiotrofica (FTD-SLA).

La demenza frontotemporale con parkinsonismo può essere una malattia ereditaria causata da una mutazione genetica. I sintomi includono problemi di movimento simili a quelli del morbo di Parkinson, come movimento rallentato, rigidità e problemi di equilibrio e cambiamenti nel comportamento o nel linguaggio.

Demenza Frontotemporale con Sclerosi Laterale Amiotrofica (FTD-SLA)

FTD-ALS, chiamato anche FTD con malattia del motoneurone, è una combinazione di bvFTD e SLA, nota anche come malattia di Lou Gehrig. I sintomi includono i cambiamenti comportamentali e / o linguistici osservati in bvFTD e la progressiva debolezza muscolare osservata nella SLA. I sintomi di entrambe le malattie possono comparire per primi, con altri sintomi che si sviluppano nel tempo. Mutazioni in alcuni geni sono state trovate in alcuni pazienti con FTD-ALS, anche se la maggior parte dei casi non sono ereditari. 

Degenerazione Lobare Frontotemporale (FTLD)

Con questo termine si intende la malattia che causa la sindrome. La degenerazione lobare frontotemporale F (FTLD) non è una singola malattia cerebrale, ma piuttosto una famiglia di malattie cerebrali che condividono alcune caratteristiche molecolari comuni. Gli scienziati stanno iniziando a comprendere le basi biologiche e genetiche per i cambiamenti osservati nelle cellule cerebrali che portano alla FTLD. 

Gli scienziati descrivono FTLD in termini di modelli di cambiamento nel cervello osservati in un'autopsia dopo la morte. Questi cambiamenti includono la perdita di neuroni e quantità anormali o forme di proteine chiamate tau e TDP-43. Queste proteine si trovano naturalmente nel corpo e aiutano le cellule a funzionare correttamente. Quando le proteine non funzionano correttamente e si accumulano nelle cellule, per ragioni non ancora completamente comprese, i neuroni in specifiche regioni del cervello sono danneggiati.

Nella maggior parte dei casi, la causa di un disturbo frontotemporale è sconosciuta. Gli individui con una storia familiare di disturbi frontotemporali hanno maggiori probabilità di sviluppare tale disturbo. Circa il 10-30% di bvFTD è dovuto a cause genetiche specifiche:

Tau gene (anche detto MAPT gene). Una mutazione in questo gene provoca anomalie in una proteina chiamata tau, che forma grovigli neurali e alla fine porta alla distruzione delle cellule cerebrali. Ereditare una mutazione in questo gene significa che una persona svilupperà quasi sicuramente un disturbo frontotemporale, di solito bvFTD, ma l'età esatta di insorgenza e i sintomi non possono essere previsti. 

GRN gene. Una mutazione in questo gene può portare a una minore produzione della proteina progranulina, che a sua volta fa sì che un'altra proteina, TDP-43, vada storta nelle cellule cerebrali. Molti disturbi frontotemporali possono risultare, anche se bvFTD è il più comune. Il gene GRN può causare sintomi diversi in diversi membri della famiglia e causare l'inizio della malattia a diverse età. 

C9ORF72 gene. Una mutazione insolita in questo gene sembra essere l'anomalia genetica più comune nei disturbi frontotemporali familiari e nella SLA familiare. Questa mutazione può causare un disturbo frontotemporale, SLA o entrambe le condizioni. 

VCP, CHMP2B, TARDBP, and FUS genes. Le mutazioni in questi geni portano a tipi familiari molto rari di disturbi frontotemporali. Le mutazioni dei geni TARDBP e FUS sono più spesso associate alla SLA ereditaria. 

Diagnosi

Nessun singolo test, come un esame del sangue, può essere utilizzato per diagnosticare un disturbo fronto-temporale. Una diagnosi definitiva può essere confermata solo da un test genetico in casi familiari o da un'autopsia cerebrale dopo la morte di una persona. Per diagnosticare un probabile disturbo frontotemporale in una persona vivente, un medico, di solito un neurologo, uno psichiatra o uno psicologo, dovrà: 

·       registrare i sintomi di una persona, spesso con l'aiuto di familiari o amici 

·       compilare una storia medica personale e familiare 

·       eseguire un esame fisico e ordinare esami del sangue per aiutare a escludere altre condizioni simili 

·       se del caso, ordinare test per scoprire mutazioni genetiche 

·       condurre una valutazione neuropsicologica per valutare il comportamento, il linguaggio, la memoria e altre funzioni cognitive 

·       utilizzare l'imaging cerebrale per cercare cambiamenti nei lobi frontali e temporali. 

Possono essere utilizzati diversi tipi di imaging cerebrale. Una risonanza magnetica (MRI) mostra cambiamenti nelle dimensioni e nella forma del cervello, compresi i lobi frontali e temporali. Può rivelare altre cause potenzialmente curabili dei sintomi della persona, come un ictus o un tumore. Nella fase iniziale della malattia, la risonanza magnetica può apparire normale. In questo caso, possono essere utili altri tipi di imaging, come la tomografia ad emissione di positroni (PET) o la tomografia a emissione di singolo fotone (SPECT). Le scansioni PET e SPECT misurano l'attività nel cervello monitorando il flusso sanguigno, l'uso di glucosio e l'uso di ossigeno. Altre scansioni PET possono aiutare a escludere una diagnosi di Alzheimer. 

I disturbi frontotemporali possono essere difficili da diagnosticare perché i loro sintomi – cambiamenti nella personalità e nel comportamento e difficoltà con la parola e il movimento – sono simili a quelli di altre condizioni. Ad esempio, bvFTD è a volte erroneamente diagnosticato come un disturbo dell'umore, come la depressione, o come un ictus, soprattutto quando ci sono problemi di linguaggio o movimento. Per rendere le cose più confuse, una persona può avere sia un disturbo frontotemporale che un altro tipo di demenza, come il morbo di Alzheimer. Inoltre, poiché questi 

Sintomi tipici

I sintomi dei disturbi frontotemporali variano da persona a persona e da uno stadio della malattia all'altro poiché sono interessate diverse parti dei lobi frontali e temporali. In generale, i cambiamenti nel lobo frontale sono associati a sintomi comportamentali, mentre i cambiamenti nel lobo temporale portano a disturbi del linguaggio e emotivi. 

I sintomi sono spesso fraintesi. Familiari e amici possono pensare che una persona si stia comportando male, portando a rabbia e conflitto. Ad esempio, una persona con bvFTD può trascurare l'igiene personale o iniziare il taccheggio. È importante capire che le persone con questi disturbi non possono controllare i loro comportamenti e altri sintomi. Inoltre, mancano di qualsiasi consapevolezza della loro malattia, rendendo difficile ottenere aiuto. 

Comportamentali

·       Problemi con il funzionamento esecutivo: problemi con la pianificazione e il sequenziamento, la definizione delle priorità, il multitasking e l'automonitoraggio e la correzione del comportamento. 

·       Perseveranza: una tendenza a ripetere la stessa attività o a dire la stessa parola più e più volte, anche quando non ha più senso. 

·       Disinibizione sociale: agire impulsivamente senza considerare come gli altri percepiscono il comportamento. Ad esempio, una persona potrebbe canticchiare a una riunione di lavoro o ridere a un funerale. 

·       Mangiare compulsivo: mangiare cibo, in particolare cibi amidacei come pane e biscotti, o prendere cibo dai piatti di altre persone. 

·       Comportamento di utilizzo: difficoltà a resistere agli impulsi di usare o toccare oggetti che si possono vedere e raggiungere. Ad esempio, una persona prende il telefono mentre lo passa davanti quando il telefono non squilla e la persona non intende effettuare una chiamata. 

Del linguaggio

·       Afasia: un disturbo del linguaggio in cui la capacità di usare o comprendere le parole è compromessa ma la capacità fisica di parlare correttamente è normale. 

·       Disartria: un disturbo del linguaggio in cui la capacità fisica di parlare correttamente è compromessa (ad esempio, slurring) ma il messaggio è normale. 

Le persone con PPA possono avere solo problemi nell'uso e nella comprensione delle parole o anche problemi con la capacità fisica di parlare. Le persone con entrambi i tipi di problemi hanno difficoltà a parlare e scrivere. Possono diventare muti o incapaci di parlare. I problemi linguistici di solito peggiorano, mentre altre abilità di pensiero e sociali possono rimanere normali più a lungo prima di deteriorarsi. 

Affettivi

·        Apatia: mancanza di interesse, guida o iniziativa. L'apatia è spesso confusa con la depressione, ma le persone con apatia potrebbero non essere tristi. Spesso hanno difficoltà ad avviare le attività, ma possono partecipare se altri fanno la pianificazione. 

·        Cambiamenti emotivi: le emozioni sono piatte, esagerate o improprie. Le emozioni possono sembrare completamente scollegate da una situazione o sono espresse nei momenti sbagliati o nelle circostanze sbagliate. Ad esempio, una persona può ridere di notizie tristi. L'affetto pseudobulbare, una condizione di improvvise e frequenti esplosioni di pianto o risate che non possono essere controllate, può verificarsi ed è curabile. 

·        Cambiamenti socio-interpersonali: difficoltà a "leggere" i segnali sociali, come le espressioni facciali, e a comprendere le relazioni personali. Le persone possono mancare di empatia – la capacità di capire come si sentono gli altri – facendole sembrare indifferenti, indifferenti o egoiste. Ad esempio, la persona potrebbe non mostrare alcuna reazione emotiva a malattie o incidenti che si verificano ai membri della famiglia. 

Motori

·       Distonia: posture anormali di parti del corpo come le mani o i piedi. Un arto può essere piegato rigidamente o non utilizzato quando si eseguono attività che normalmente vengono eseguite con due mani. 

·       Disturbo dell'andatura: anomalie nel camminare, come camminare con uno shuffle, a volte con frequenti cadute. 

·       Tremore: tremore, di solito delle mani. 

·       Goffaggine: caduta di piccoli oggetti o difficoltà di manipolazione 

·       piccoli oggetti come bottoni o viti. 

·       Aprassia: perdita della capacità di fare movimenti comuni, come pettinarsi i capelli o usare un coltello e una forchetta, nonostante la normale forza. 

·       Debolezza neuromuscolare: grave debolezza, crampi e movimenti increspati nei muscoli. 

Trattamento

Finora, non esiste una cura per i disturbi frontotemporali e nessun modo per rallentarli o prevenirli. Tuttavia, ci sono modi per gestire i sintomi. Un team di specialisti - medici, infermieri e terapisti del linguaggio, fisici e occupazionali - che hanno familiarità con questi disturbi può aiutare a guidare il trattamento.

Gestione dei problemi comportamentali

I comportamenti di una persona con bvFTD possono turbare e frustrare i membri della famiglia e altri caregiver. È naturale soffrire per la "persona perduta", ma è anche importante imparare come vivere al meglio con la persona che è diventata. Comprendere i cambiamenti nella personalità e nel comportamento e sapere come rispondere può ridurre la frustrazione dei caregiver e aiutarli a far fronte alle sfide della cura di una persona con un disturbo frontotemporale. 

La gestione dei sintomi comportamentali può comportare diversi approcci. Per garantire la sicurezza di una persona e della sua famiglia, i caregiver potrebbero dover assumere nuove responsabilità o organizzare cure che prima non erano necessarie. Ad esempio, potrebbero dover guidare la persona a appuntamenti e commissioni, prendersi cura dei bambini piccoli o organizzare l'aiuto a casa. 

È utile, anche se spesso difficile, accettare piuttosto che sfidare le persone con sintomi comportamentali. Discutere o ragionare con loro non aiuterà perché non possono controllare i loro comportamenti o persino vedere che sono insoliti o sconvolgenti per gli altri. Invece, sii il più sensibile possibile e capisci che è la malattia a "parlare". I caregiver frustrati possono fare un "timeout": fare respiri profondi, contare fino a 10 o lasciare la stanza per alcuni minuti. 

Affrontare l'apatia, limitare le scelte e offrire scelte specifiche. Le domande a risposta aperta ("Cosa ti piacerebbe fare oggi?") sono più difficili da rispondere rispetto a quelle specifiche ("Vuoi andare al cinema o al centro commerciale oggi?"). 

Anche mantenere il programma della persona, ridurre le distrazioni e modificare l'ambiente può aiutare. Un programma regolare è meno confuso e può aiutare le persone a dormire meglio. Se il mangiare compulsivo è un problema, i caregiver potrebbero dover supervisionare il mangiare, limitare le scelte alimentari, chiudere a chiave gli armadietti degli alimenti e il frigorifero e distrarre la persona con altre attività. Per affrontare altri comportamenti compulsivi, i caregiver potrebbero dover cambiare gli orari o offrire nuove attività. 

I farmaci sono disponibili per trattare alcuni sintomi comportamentali. Gli antidepressivi chiamati inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina sono comunemente prescritti per trattare la disinibizione sociale e il comportamento impulsivo. I pazienti con aggressività o deliri a volte assumono basse dosi di farmaci antipsicotici. L'uso di farmaci per la malattia di Alzheimer per migliorare i sintomi comportamentali e cognitivi nelle persone con bvFTD e disturbi correlati è in fase di studio, anche se i risultati finora sono stati misti, con alcuni farmaci che peggiorano i sintomi. Se un particolare farmaco non funziona, un medico può provarne un altro. Consultare sempre un medico prima di cambiare, aggiungere o interrompere un farmaco. 

Demenze: cosa si può fare?

Dimensione del problema demenza

Secondo le stime del World Alzheimer Report 2015, 46.8 milioni di persone nel mondo hanno demenza, e questo numero è stimato aumentare a 74.7 nel 2030 e a 131.5 nel 2050 (Wu et al. 2017). L’inizio della demenza è subdolo e si presenza come una sindrome “lieve” (Mild Cognitive Impairment). La prevalenza di MCI è di 4-19% in persone oltre i 65 anni di età. 

Diverse istituzioni, scientifiche o politiche, sottolineano la necessità di affrontare il problema demenza con strutture locali dedicate (Bennett et al. 2006).

Cosa si può fare

La demenza è stata considerata a lungo una condizione senza speranze di prevenzione o trattamento, ma sostanziali progressi sono stati fatti nell’ultimo decennio. Dal punto di vista della salute pubblica, l’approccio alla demenza include la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento in fase conclamata.

Prevenzione

Sempre maggiori dati scientifici sostengono la rilevanza ed efficacia della prevenzione. I risultati di un recente lavoro della Lancet Commission on Dementia Prevention, Intervention, and Care (Livingston et al. 2017) indicano una potenziale riduzione dell’incidenza (nuovi casi/anno) di demenze del 30% a seguito del controllo dei fattori di rischio. 

Diagnosi Precoce

La stessa Commissione raccomanda la diagnosi precoce o diagnosi di MCI. Nella pratica clinica, MCI deve essere infatti concettualizzato come una condizione di rischio, utile da riconoscere per mettere in atto la prevenzione. Esiste una prevenzione primaria e secondaria efficace (Friberg and Rosenqvist 2018; Lafortune and Brayne 2017). Il deterioramento cognitivo negli anziani ha una varietà di possibili cause, inclusi effetti collaterali dei farmaci, squilibri metabolici e/o endocrini, delirio dovuto a malattie intercorrenti, depressione. Alcune cause possono essere trattate con efficacia. Quindi è importante la diagnosi precoce per modificare stili di vita e ridurre i fattori di rischio (Livingston et al. 2017). La diagnosi precoce diventerà essenziale qualora nuovi farmaci disease modifying (attualmente in fase di trial) dovessero essere approvati per entrare in uso terapeutico. È essenziale, comunque, menzionare che diverse recenti prestigiose istituzioni e gruppi di ricerca suggeriscono di orientare sempre maggiore attenzione agli approcci non-farmacologici (Growdon et al. 2021; Steinman et al. 2006; Gerlach et al. 2017; Rhee, Pothoulakis, and Mayer 2009).

Trattamento

Le demenze neurodegenerative, in fase conclamata, come la Malattia di Alzheimer, Demenze Vascolari o Demenze Miste, e altre Demenze meno frequenti non possono essere curate, ma molte delle manifestazioni cliniche sono trattabili, in modo da ridurre il peso dei sintomi e l’abilità dei familiari ad affrontarli, fino a fornire raccomandazioni per la end‑of‑life care.

Memory Unit

L’approccio multidisciplinare richiede una struttura dedicata, composta da un team di specialisti dedicati alla prevenzione, diagnosi e trattamento del disturbo neurocognitivo. Il progetto include una componente “sociale” che renda disponibili sul territorio le nuove indicazioni diagnostiche e di prevenzione, attraverso organizzazione di corsi e pubblicazione di materiale informativo. 

Un tipico iniziale approccio clinico include:

·       Visita Neurologica

·       Test Neuropsicologici

·       Neuroimmagini

·       EcoDoppler Sonografia€

·       Visita Cardiologica ECG

·       Eventuale EcoCardiografia

·       Ematochimici

·       Seconda Visita Neurologica

·       Eventuale Visita internistica

News - Tè verde e Alzheimer: un'ipotesi per future terapie

Tratto da: https://www.nia.nih.gov/news/study-green-tea-and-other-molecules-uncovers-new-therapeutic-strategy-alzheimers?utm_source=nia-eblast&utm_medium=email&utm_campaign=news-20230227 (16 febbraio 2023)

Uni studio, pubblicato su Nature Communications, riporta che una molecola trovata nel tè verde rompe i “grovigli” della proteina tau. I “grovigli” delle proteine tau sono un segno distintivo della malattia di Alzheimer. Sulla base di questa scoperta, il team ha identificato altre molecole che possono interferire positivamente con i grovigli tau. Queste molecole potrebbero essere farmaci utili e costituire una strategia efficace per il trattamento dell'Alzheimer.

Nell'Alzheimer, la tau si accumula in modo anomalo in grovigli fibrosi che si diffondono tra le cellule cerebrali, portando alla morte cellulare. La molecola del tè verde (conosciuta con l’acronimo EGCG) è nota per “districare” queste fibre tau. Tuttavia, EGCG non è di per sé un trattamento efficace per l'Alzheimer perché non può facilmente penetrare nel cervello e si lega a molte proteine diverse dalla tau, indebolendone l'effetto. Pertanto, i ricercatori hanno voluto trovare molecole che replicano gli effetti dell'EGCG ma che abbiano migliori proprietà farmacologiche per il trattamento dell'Alzheimer.

In questo studio, un team guidato da ricercatori dell'Università della California, Los Angeles, ha isolato grovigli di tau da tessuto cerebrale post-mortem e dimostrato che EGCG si attacca e smantella le fibre tau. Utilizzando simulazioni al computer, i ricercatori hanno identificato altre molecole che potrebbero funzionare in modo simile all'EGCG, ma che potrebbero essere in grado di entrare più facilmente nel cervello. La ricerca futura su queste molecole potrebbe aiutare a scoprire di più sul loro potenziale terapeutico.

This research was supported in part by NIA grants R01AG070895 and R01AG048120. 

Reference: Seidler PM, et al. Structure-based discovery of small molecules that disaggregate Alzheimer’s disease tissue derived tau fibrils in vitro. Nature Communications. 2022;13(1):5451. doi: 10.1038/s41467-022-32951-4.

Tè verde per Alzheimer? Non proprio così


Tratto da: Seidler PM, et al. Structure-based discovery of small molecules that disaggregate Alzheimer’s disease tissue derived tau fibrils in vitro. Nature Communications. 2022;13(1):5451. doi: 10.1038/s41467-022-32951-4.

L'epigallocatechina gallato (EGCG) – una molecola presente nel tè verde – è nota per districare le fibre tau. Tuttavia, non è un trattamento efficace per l'Alzheimer perché non può facilmente raggiungere il cervello e si lega a molte altre proteine, il che ne indebolisce l'effetto.
Per capire meglio come funziona questa molecola, ricercatori finanziati dalla NIA hanno isolato i grovigli tau e li hanno trattati con EGCG. Successivamente, il team di ricerca ha catturato immagini di EGCG e del complesso di fibre tau che hanno rivelato come la molecola si attacca e smantella le fibre tau. Utilizzando simulazioni al computer, i ricercatori hanno quindi identificato altre molecole che possono funzionare in modo simile ma hanno migliori proprietà farmacologiche per il trattamento dell'Alzheimer rispetto all'EGCG. Hanno testato ulteriormente queste molecole e hanno scoperto che diverse fibre tau districate e alcune impedivano alle fibre tau districate di diffondersi e formare nuovi grovigli.
Sebbene i ricercatori avvertano che è necessario più lavoro, queste molecole appena scoperte possono aiutare a sostenere nuove terapie per il trattamento dell'Alzheimer.

Nell'Alzheimer, la tau si attacca in modo anomalo in grovigli fibrosi che si diffondono tra le cellule cerebrali, portando alla morte cellulare. La molecola epigallocatechina gallato (EGCG) – quella che si trova nel tè verde – è nota per districare queste fibre tau. Tuttavia, EGCG non è di per sé un trattamento efficace per l'Alzheimer perché non può facilmente penetrare nel cervello e si lega a molte proteine diverse dalla tau, indebolendone l'effetto. Pertanto, i ricercatori hanno voluto trovare molecole che replicano gli effetti dell'EGCG ma hanno migliori proprietà farmacologiche per il trattamento dell'Alzheimer.

Nel complesso, i risultati suggeriscono che queste molecole appena scoperte che possono penetrare nel cervello e smantellare i grovigli tau possono essere una strategia promettente per il trattamento dell'Alzheimer. La ricerca futura su queste molecole potrebbe aiutare a scoprire di più sul loro potenziale terapeutico.

Demenze: Farmaci

Molto si può fare per il trattamento dei disturbi neurocognitivi con approcci non-farmacologici. Vedi, per esempio (purtroppo in inglese): https://www.nia.nih.gov/health/alzheimers/caregiving.

I farmaci attualmente disponibili sono sintomatici, cioè non modificano l’andamento della malattia, ma possono migliorare alcuni sintomi e attenuare disturbi comportamentali associati al deficit cognitivo.

Negli ultimi 2-3 anni anticorpi monoclonali anti-amiloide sono stati sviluppati per rallentare la progressione della malattia di Alzheimer. Tra i più studiati ci sono aducanumab, che ha ricevuto l'approvazione accelerata dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti nel 2021, e donanemab, che è attualmente in fase di sperimentazione di fase 3. 

L’approvazione del aducanumab da parte di FDA (Food & Drug Administration – USA) ha suscitato molte critiche per la insufficiente prova (secondo molti esperti) di efficacia. Un recente articolo (Ross, Eric L., Marc S. Weinberg, and Steven E. Arnold. "Cost-effectiveness of Aducanumab and Donanemab for Early Alzheimer Disease in the US." JAMA neurology (2022) ha esaminato i dati a disposizione allo scopo di valutare il rapporto costi/benefici dei due farmaci. Gli autori concludono che “… ai prezzi attuali, né aducanumab né donanemab sarebbero convenienti per il trattamento negli Stati Uniti.” 

Da considerare che il farmaco è potenzialmente efficace solo in fase molto iniziale. Gli autori ipotizzano che il trattamento possa diventare costo-efficace se si considerasse uno schema di dosaggio del donanemab in cui i pazienti sospendano il trattamento al raggiungimento di sostanziali riduzioni dell'amiloide.

Nuovi farmaci per Alzheimer?

ESTRATTO DA LANCET NEUROLOGY| VOLUME 22, ISSUE 6, P455, JUNE 2023. Published:June, 2023DOI :https://doi.org/10.1016/S1474-4422(23)00167-9

I progressi nella ricerca sulla malattia di Alzheimer negli ultimi due decenni hanno portato a innovazioni nei biomarcatori e nei criteri diagnostici e hanno spianato la strada ai primi studi modificanti la malattia con risultati positivi. Per fornire questi trattamenti in modo sicuro e garantire un accesso equo, i servizi sanitari devono prepararsi.

A seguito dell'approvazione accelerata di aducanumab per il trattamento della malattia di Alzheimer nel 2021, la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti ha approvato lecanemab  il 6 gennaio 2023, tramite lo stesso programma. 

Questi anticorpi monoclonali rimuovono le placche amiloidi dal cervello (cioè l'endpoint surrogato). Lecanemab dovrebbe ottenere l'approvazione convenzionale dalla FDA nell'estate 2023 ed è in fase di revisione da parte dell'Agenzia europea per i medicinali (EMA). Tuttavia, i benefici clinici di aducanumab sono meno certi; non è stato approvato dall'EMA.

Negli Stati Uniti, lecanemab può essere usato per trattare le persone con decadimento cognitivo lieve o demenza lieve dovuta al morbo di Alzheimer che hanno patologia amiloide cerebrale, secondo  i criteri diagnostici del National Institute on Aging-Alzheimer's Association (NIA-AA).

Una task force europea per i servizi di  salute del cervello ha raccomandato l'implementazione di cliniche della memoria che potrebbero valutare il rischio di demenza.

Per offrire il trattamento del lecanemab, i centri terziari devono avere accesso non solo alle strutture di risonanza magnetica - per escludere le persone con determinate comorbidità vascolari e per monitorare la sicurezza - ma anche alle strutture o ai  laboratori di PET amiloidein grado di analizzare i biomarcatori del liquido cerebrospinale indicativi della malattia di Alzheimer. L'elenco delle infrastrutture e delle risorse umane necessarie per l'uso sicuro del farmaco è ampio. 

 

Secondo le raccomandazioni sull'uso appropriato di un  gruppo di esperti con sede negli Stati Uniti, un team multidisciplinare di professionisti della salute deve lavorare in modo cooperativo. La FDA ha messo in guardia sui dati limitati disponibili sui pazienti esposti a farmaci antitrombotici e il gruppo di esperti raccomanda che le persone in trattamento con anticoagulanti (ad esempio, warfarin e anticoagulanti orali diretti) non ricevano lecanemab, poiché il loro rischio di sviluppare emorragia cerebrale potrebbe essere troppo alto. 

Tuttavia, il monitoraggio periodico della risonanza magnetica di coloro che sono eleggibili al trattamento è essenziale per rilevare anomalie di imaging correlate all'amiloide (ARIA) che possono causare gravi effetti collaterali, come l'edema cerebrale. I centri devono sviluppare protocolli per la gestione delle complicanze rare ma gravi, che aggiungono le unità di terapia intensiva all'elenco delle risorse necessarie. Aggiungendo un ulteriore livello di complessità alla gestione e al processo decisionale clinico, durante il trattamento con lecanemab il rischio di ARIA aumenta in modo genico dose-dipendente per i portatori dell'  allele APOE ɛ4. Quindi, c'è anche bisogno di risorse di genotipizzazione e consulenza genetica.


Nuovi farmaci per la Malattia di Alzheimer approvati da FDA

Un articolo pubblicato in gennaio 2023 sul prestigioso New England Journal of Medicine (van Dyck CH, Swanson CJ, Aisen P, et al. Lecanemab in early Alzheimer’s disease. N Engl J Med 2023;388:9-21) riporta i risultati incoraggianti di uno studio di fase 3, della durata di 18 mesi, sull’effetto del Lecanemab in soggetti con malattia precoce di Alzheimer. Lecanemab è uno dei numerosi anticorpi anti-amiloide sottoposti a valutazione negli studi clinici, ma il primo a mostrare differenze significative, seppure molto modeste, rispetto al gruppo di controllo su misure di funzioni cognitive e di abilità nel condurre le normali attività della vita quotidiana.

A seguito, principalmente, di questo studio la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha approvato, con procedura accelerata, lecanemab per il trattamento della malattia di Alzheimer. Lecanemab è il secondo di una nuova categoria di farmaci approvati per la malattia di Alzheimer che mirano alla fisiopatologia alla base della malattia. Questi farmaci rappresentano un importante progresso nella lotta in corso per sviluppare un trattamento efficace della malattia di Alzheimer. 

Ma, bisogna chiarire che il farmaco è indicato per forme precoci di malattia, che ha effetto limitato e che può provocare edema o sanguinamento cerebrale potenzialmente gravi. La scheda tecnica USA del farmaco impone ai pazienti di sottoporsi a tre scansioni in risonanza magnetica prima della quinta, settima e quattordicesima infusione, come misura precauzionale per monitorare eventuali episodi avversi. 

"Questo studio di 18 mesi ha dimostrato una modesta riduzione delle misure di declino cognitivo, così come dei marcatori di amiloide, con l'uso di lecanemab nella malattia di Alzheimer precoce. Sebbene i benefici siano stati modesti e siano necessari ulteriori studi per valutare possibili gravi problemi di sicurezza, i risultati sono potenzialmente entusiasmanti in questa condizione devastante che colpisce così tanti pazienti" (New@NEJM.org, January 2023).

Un altro farmaco, per molti aspetti analogo, era stato approvato da FDA con simile indicazione. Il nome è aducanumab. Molti medici e ricercatori hanno lodato l'approvazione, affermando che anche un modesto rallentamento della progressione della malattia da parte di aducanumab si tradurrebbe in benefici significativi e fornirebbe speranza ai milioni di soggetti con malattia di Alzheimer.

Ma la recente approvazione, anche in questo caso attraverso un percorso accelerato, si è impantanata in polemiche. Il farmaco sembra essere efficace nel ridurre le concentrazioni cerebrali di β-amiloide. Ma il ruolo della riduzione della β-amiloide cerebrale sulla stabilizzazione clinica o miglioramento della malattia di Alzheimer è incerto. 

Il costo di questi farmaci è elevato. Inoltre, come è ovvio, non tutte le forme di demenza sono Alzheimer e sono necessari ulteriori studi per valutare se aducanumab e lecanemab sono appropriati per quelli con presentazioni atipiche di AD, come l'atrofia corticale posteriore e l'afasia logopenica primaria progressiva o la malattia da corpi di Lewy, o le forme cosiddette “miste”. Poiché rimangono molte domande, informare pienamente i pazienti su ciò che è sconosciuto è il modo migliore per affrontare l'incertezza. Dobbiamo praticare discernimento e cautela.

Solanezumab per Alzheimer Preclinico

Un nuovo farmaco (Solanezumab) proposto per il trattamento della Malattia di Alzheimer, in fase molto precoce è inefficace. Uno studio recente pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine riguarda soggetti cosiddetti “amyloid-positive” (asintomatici, ma con segni di accumulo cerebrale di proteine patologiche), paragonati ad un gruppo di controllo e seguiti per 4,5 anni. Di seguito il sommario dello studio tradaotto da N Engl J Med 2023; 389:1096-1107; DOI: 10.1056/NEJMoa2305032:

“Solanezumab, che ha come bersaglio l'amiloide monomerica nelle persone con elevati livelli di amiloide cerebrale, non ha rallentato il declino cognitivo rispetto al placebo per un periodo di 240 settimane nelle persone con malattia di Alzheimer preclinica. (Finanziato dal National Institute on Aging e altri; A4 ClinicalTrials.gov numero, NCT02008357.)

I processi patologici associati alla malattia di Alzheimer – accumulo di amiloide-beta (Aβ) nelle placche fibrillari e tau iperfosforilata in grovigli neurofibrillari a filamento elicoidale accoppiato – iniziano più di un decennio prima del deterioramento cognitivo clinicamente evidente. Circa il 20-40% delle persone anziane cognitivamente non compromesse mostra evidenza di elevato accumulo di amiloide. Alcune evidenze suggeriscono che queste persone anziane "amiloide-positive" ma cognitivamente non compromesse rappresentano uno stadio preclinico, o asintomatico, della malattia di Alzheimer e possono essere ad alto rischio di declino cognitivo.

Il trattamento anti-amiloide nella malattia di Alzheimer asintomatica (A4) è stato uno studio di intervento precoce che mirava a rallentare il declino cognitivo nella fase preclinica della malattia di Alzheimer in persone anziane che non erano cognitivamente compromesse al basale ma avevano livelli elevati di amiloide durante lo screening della tomografia ad emissione di positroni (PET). Abbiamo testato solanezumab, un anticorpo monoclonale immunoglobulina G1 che si lega al dominio medio del monomero Aβ, rispetto al placebo per 4,5 anni in uno studio di fase 3. Ai fini di questo studio, sono state sviluppate nuove misure di esito per tracciare le prime fasi del declino cognitivo e funzionale.”

Cosa fare dopo diagnosi di Alzheimer?

Una diagnosi di malattia di Alzheimer può essere difficile. Tuttavia, avere informazioni e supporto accurati può aiutarti a sapere cosa aspettarti e cosa fare dopo che la malattia progredisce. Di seguito alcuni suggerimenti tratti da https://order.nia.nih.gov/publication/next-steps-after-an-alzheimers-diagnosis?utm_source=nia-eblast&utm_medium=email&utm_campaign=alzgov-20220614

 

Perdere la memoria

estratto da: 

Francesco Orzi, Alessandro ZocchiAnnulli Editori 2020

 

Può succedere con l'avanzare dell'età di avere piccoli disturbi di memoria: non ritrovare le chiavi, dimenticarsi nomi di persone appena incontrate, dimenticare un appuntamento, e così via. È presente una preoccupazione per la propria memoria. Preoccupazione che è condivisa da familiari e amici, i quali avvertono piccole differenze rispetto «a prima». Gli stessi disturbi possono rendere necessario uno sforzo o piccoli comportamenti di compensazione per continuare a gestire la propria vita e le interazioni.  

Nel complesso la performance è ridotta, rispetto all’età e al background culturale o scolarità. La ridotta performance è spesso limitata alla memoria, ma può riguardare altri domini cognitivi, incluso il linguaggio, le funzioni esecutive (quelle che hanno a che fare con il nostro inserimento nel mondo sociale/lavorativo) o le funzioni visuo-spaziali (per esempio, orientarsi in un percorso o riconoscere forme da disegni incompleti). 

Inoltre, una storia medica accurata rileva un declino, cioè una differenza della condizione attuale rispetto a un livello precedente. In tutti i casi si tratta di disturbi che non compromettono l’autonomia funzionale o l’attività lavorativa. Ci possono essere piccole difficoltà nello svolgere compiti complessi, nel senso che, per esempio, portarli a termine compiti abituali richiede maggior tempo. 

Questa condizione è definita dagli addetti ai lavori Mild Cognitive Impairment (MCI) o «disturbo neurocognitivo minore». Se il modesto deficit riguarda solo la memoria, caso più frequente, si parla di MCI Amnestico. 

C’è da sottolineare che dimenticare è normale, e spesso necessario o utile. Il cervello tende a promuovere il mantenimento di informazioni utili e a scartare informazioni che non abbiano rilevanza. Recenti dati suggeriscono che le informazioni si perdono non solo passivamente, ma il cervello opera per cancellare informazioni.

È chiaro quindi che non basta avere qualche dimenticanza per entrare nella categoria di MCI. Per fare diagnosi di MCI ci vuole una oggettività del disturbo, in genere da documentare con test neuropsicologici condotti da professionisti. Persone con MCI sono eterogenee nella espressione clinica e non sempre la diagnosi è facile. Soggetti con MCI sono anche eterogenei nella patologia che sottende il disturbo. Rilevante, sul piano dell’assistenza medica, è la nozione che innocue espressioni di cambiamenti emotivi o cognitivi associati all’età possono essere confusi con MCI, provocando preoccupazione e stress nel soggetto e familiari. Difetti di memoria possono infatti essere solo espressione di episodi depressivi o problemi internistici spesso reversibili, e non avere quindi alcuna relazione con un disturbo neurocognitivo degenerativo. 

La diagnosi differenziale spesso non è facile, ma va perseguita con l’aiuto di esami biochimici o strumentali. La diagnosi è importante, anche per mettere in atto interventi terapeutici e soprattutto (al momento attuale) preventivi.

La diagnosi di MCI, quindi, non sempre è facile e, nonostante l'aiuto di corretti approcci diagnostici, può rimanere incertezza tra MCI o modesto deficit di memoria associato all’età o ad altri fattori non neurodegenerativi.  Per questo la prevalenza (numero di persone che presentano la condizione, in una popolazione al tempo della osservazione) di MCI è stimata con differenze sostanziali nella letteratura specialistica. 

La prevalenza è di 4-19% in persone oltre i 65 anni di età, e di 1-3% nella popolazione generale.  MCI è certamente più frequente nella popolazione anziana e in soggetti con bassa scolarità. Età e scarso bagaglio culturale sono quindi i fattori di rischio maggiori. 

Soggetti con MCI sono eterogenei anche nella prognosi. La condizione clinica di MCI infatti non sempre è a prognosi sfavorevole. In uno studio su 1.790 persone con MCI di età superiore ai 64 anni, a cinque anni dall’inclusione nello studio, soltanto poche persone mantenevano la diagnosi di MCI: 50-70% dei casi erano peggiorati a demenza, e 25-30% erano migliorati e regrediti a normalità (Fisk, Merry, e Rockwood 2003). MCI può essere quindi una condizione stabile, o addirittura in potenziale regressione, in una percentuale che varia tra 14 e 33% (Petersen et al. 2018). Circa un terzo dei soggetti con MCI sviluppa però un disturbo neurocognitivo maggiore nei susseguenti tre-dieci anni, con una quota di conversione a demenza di 10-15% per anno. MCI quindi non è una malattia. È una condizione clinica che può essere concettualizzata come una condizione di rischio, a delineare una probabilità (non sicurezza) di sviluppare demenza. 

Benché ancora non ci sia la possibilità di valutare il rischio di conversione, cioè di sapere chi peggiorerà fino alla condizione di demenza e chi ritornerà a normalità, si può ridurre il rischio di conversione. Molti dati infatti suggeriscono che lo stile di vita è importante. Per «salvare» il nostro cervello è bene seguire alcune regole.

In estrema sintesi:

Nella pratica clinica, MCI deve essere concettualizzato come una condizione di di rischio, utile da riconoscere per mettere in atto una prevenzione rigida. Sempre più dati infatti confermano il vantaggio di uno stile di vita/dieta appropriato. Rilevante, sul piano dell’assistenza medica, è anche la nozione che innocue espressioni di cambiamenti emotivi o cognitivi associati all’età possono essere confusi con MCI, provocando preoccupazione e stress nel soggetto e familiari. Gli stessi disturbi possono riflettere episodi depressivi o problemi internistici che devono essere oggetto di interventi terapeutici. 

Altro punto rilevante e controverso riguarda l’ipotesi che un graduale, lento, declino cognitivo sia un processo normale associato all’eta, e che quindi il fenomeno non sia da considerare di sostanziale interesse medico, ma soprattutto socio-sanitario in senso lato. Un recente lavoro su oltre mille persone, seguite fino a 24 anni con test cognitivi annuali e con valutazione anatomopatologica post-mortem per 9 marker (Alzheimer disease pathology, Lewy bodies, transactive response DNA-binding protein 43 pathology, hippocampal sclerosis, atherosclerosis, gross infarcts) ha dimostrato che disturbi cognitivi dell’anziano riflettono soprattutto eventi patologici (Wilson et al. 2020).


Delirium

Attualmente il termine delirium è usato nella letteratura medica per indicare un disturbo dell'attenzione e della consapevolezza che si sviluppa acutamente e tende a fluttuare, a volte associato a sintomi psicotici e affettivi. Il delirium è episodico, con durata di ore o giorni se la causa che lo sottende si risolve. In pazienti ospedalizzati persiste fino alla dimissione in circa metà dei casi e per almeno un mese in un terzo dei casi. È presente in 10-15% degli adulti in pronto soccorso. In pazienti ospedalizzati l’incidenza varia dal 6 al 56%. Frequentemente insorge in seguito a interventi chirurgici. Alcuni studi riportano disturbi cognitivi permanenti associati a delirium, ma ancora non è chiaro se questi esiti siano il risultato del delirium o se, piuttosto, è il delirium a costituire la spia di un disturbo cognitivo sottostante e progressivamente ingravescente. 


Punti chiave (da N Engl J Med 2017; 377:1456-1466; DOI: 10.1056/NEJMcp1605501):

Delirio negli anziani ospedalizzati

1.            Il delirio è uno stato confusionale acuto che è estremamente comune tra gli anziani ospedalizzati ed è fortemente associato a scarsi risultati a breve e lungo termine.

2.             Il rischio di delirio può essere valutato in base alla presenza di fattori predisponenti (basali) e precipitanti (acuti). Più fattori predisponenti sono presenti, meno fattori precipitanti sono necessari per causare delirio.

3.             Il primo passo nella gestione del delirio è una diagnosi accurata; si consiglia un breve strumento convalidato che valuti le caratteristiche dell'algoritmo del metodo di valutazione della confusione.

4.             Dopo aver ricevuto una diagnosi di delirio, i pazienti richiedono una valutazione approfondita per le cause reversibili; dovrebbero essere affrontati tutti i fattori che contribuiscono correttamente.

5.             I disturbi comportamentali dovrebbero essere gestiti prima con approcci non farmacologici. Se necessario per la sicurezza del paziente, basse dosi di agenti antipsicotici ad alta potenza sono di solito il trattamento di scelta (uso off-label). Il trattamento deve essere mirato a comportamenti specifici e interrotto il prima possibile.

6.             Gli interventi proattivi e multifattoriali e la consultazione geriatrica hanno dimostrato di ridurre l'incidenza, la gravità e la durata del delirio.

Vedi anche:

https://americandeliriumsociety.org/healthcare-professionals/clinical-application/

Emicrania

Conviene subito precisare che emicrania non è sinonimo di cefalea. Emicrania è una malattia, che si manifesta principalmente con cefalea. Oltre al dolore di testa possono essere presenti disturbi della vista, deficit sensitivi a un lato del corpo o disturbi del linguaggio. Tutti questi disturbi rappresentano transitori deficit neurologici della durata di 5-60 minuti, in genere accompagnati dal tipico dolore alla testa. 

La diagnosi è clinica, nel senso che il neurologo non ha altri strumenti a disposizione per identificare il disturbo se non il racconto del paziente, la sua storia medica, la descrizione dei suoi sintomi presenti e degli episodi passati. I criteri clinici per la diagnosi sono in continua evoluzione per il progredire delle conoscenze, i più recenti sono quelli forniti da International Classification of Headache Disorders, 3rd edition (ICHD-3), https://ichd-3.org/. I criteri definiscono anche sottotipi di emicrania (per esempio, emicrania con aura, senza aura, emiplegica, retinica, cronica), in base alla presenza o meno di determinati sintomi e alla durata o frequenza degli episodi.

La presentazione dei disturbi non è sempre tipica e può porre difficoltà diagnostiche. Il dolore alla testa può rappresentare il sintomo di altri problemi. Il neurologo deve porre attenzione a particolari caratteristiche del dolore e a eventuali altri segni o dettagli anamnestici (in gergo red flags, bandierine di pericolo) che impongono di considerare specifici percorsi diagnostici.

Le cause dell'emicrania non sono note. La patogenesi include l’effetto di potenti vasodilatatori, tra cui Calcitonin Gene–Related Peptide (CGRP), Pituitary Adenylate Cyclase–Activating Peptide (PACAP-38) e monossido d’azoto, ampiamente distribuiti nel sistema trigemino-vascolare. Con questo nome si identifica un insieme di strutture anatomiche, alla base del cranio, che innervano i vasi arteriosi delle meningi. Il sistema è connesso centralmente al tronco dell’encefalo e al talamo (al centro del cervello) che a sua volta comunica con alcune aree corticali. L’episodio emicranico è quindi una sorta di tempesta biochimica e vascolare al centro del cervello, che coinvolge i vasi delle meningi e degli occhi. Ne consegue un’anomala stimolazione, dalla base al vertice del cervello, percepita come dolore. Come un temporale estivo, l’episodio emicranico si esaurisce, tipicamente senza lasciare danni. Ma in casi eccezionali, in persone predisposte, per esempio per la presenza di fattori di rischio vascolari o per ragioni genetiche, la tempesta biochimico-vascolare può lasciare lesioni cerebrali.

Il ruolo della genetica è incerto. Con l’eccezione di casi molto rari (per esempio, la cosiddetta familial hemiplegic migraine) il rischio è poligenico. Questo significa che ci può essere una familiarità, ma non una trasmissione ereditaria nel senso tradizionale del termine.

La gestione clinica dell'emicrania include due tipi di approcci: 1) acuto (detto anche abortivo) che ha lo scopo di interrompere l’episodio emicranico; 2) preventivo, per ridurre il rischio di nuovi episodi. La terapia farmacologica è il cardine del trattamento. Terapie non farmacologiche possono essere considerate in aggiunta ai farmaci o in pazienti per i quali è meglio evitare i farmaci, ad esempio nelle donne in gravidanza. L’efficacia di questi trattamenti non-farmacologici però è dubbia. Esistono deboli dati a favore dell’efficacia di dispositivi neuromodulatori non invasivi, di terapie bio-comportamentali e dell’agopuntura. Poca o nulla è l’evidenza a sostegno della terapia fisica, dellamanipolazione chiropratica o di approcci dietetici. Bisogna essere consapevoli che l’enorme prevalenza dell’emicrania e la sensibilità di questo disturbo all’effetto placebo ha favorito operazioni di marketing spesso spregiudicate, con la promozione di approcci la cui utilità è priva di evidenza.

 

Per alleviare i sintomi del singolo episodio emicranico i farmaci utilizzati sono il paracetamolo o gli antinfiammatori non steroidei (FANS), per esempio, acido acetilsalicilico (aspirina), ibuprofene o diclofenac. Alcuni specifici tipi di emicrania rispondono alla indometacina. I triptani sono una classe di farmaci da considerare in seconda linea per il trattamento acuto. Esistono diverse molecole all'interno della classe (per esempio, almotriptan, eletriptan, frovatriptan, naratriptan, rizatriptan, sumatriptan, zolmitriptan). Benché simili tra loro questi farmaci possono avere un'efficacia diversa in diverse persone. É quindi buona regola suggerire ai pazienti di cambiare triptano prima di abbandonarlo per inefficacia. Questi farmaci esistono in diverse formulazioni, orali o per iniezione. In ogni caso è essenziale che siano somministrati all'inizio dell'episodio. C’è crescente interesse per una classe di farmaci chiamati (gepants o ditans) come ubrogepant, rimegepant, e lasmiditan, approvati in alcuni Paesi, per ora limitati a persone per le quali triptani e FANS sono inefficaci o controindicati per effetti collaterali.          

                                           

Quando gli episodi sono frequenti e l'emicrania diventa invalidante c'è indicazione per il trattamento preventivo. Il concetto di "invalidante" ha una quota di soggettività. Giorni di malattia possono avere un peso diverso per una persona disoccupata o per un manager con alte responsabilità o per una mamma di bambini e così via. Tipicamente, almeno due giorni di emicrania al mese in una persona che ha una occupazione lavorativa piena sono considerati sufficienti per considerare una terapia preventiva. I farmaci più usati sono alcuni antipertensivi (beta-bloccanti), antidepressivi (amitriptilina), antiepilettici (topiramato, valproato di sodio), calcioantagonisti (flunarizina).  Nella emicrania cronica i farmaci da preferire sono topiramato e tossina botulinica. Anche per la profilassi, “in adulti che presentano almeno 4 giorni di emicrania al mese” esistono antagonisti di CGRP (galcanezumab o fremanezumab).

Questo vasto numero di farmaci è solo apparentemente positivo. In realtà l’ampia scelta a disposizione esprime la difficoltà di affrontare l’emicrania in modo efficace. Da sottolineare anche il rischio, molto alto, di complicanze da abuso di farmaci. Molto frequenti quelle da abuso di FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei). Attualmente i FANS sono tra i farmaci da banco più venduti, circa il 5% delle medicine prescritte. Gli effetti collaterali di questi farmaci sono rilevanti e molto spesso sottovalutati.      

Trattamento dell' Emicrania in Gravidanza

Alcune note essenziali tratte e riadattate dal American Headache Society: https://americanheadachesociety.org/news/treating-migraine-during-pregnancy/

Alcuni farmaci utilizzati per il trattamento e la prevenzione dell'emicrania sono controindicati per la gravidanza, a causa di problemi di sicurezza per il feto in via di sviluppo. Come regola generale, si consiglia di assumere meno farmaci possibile in gravidanza.

Il paracetamolo è considerato sicuro in gravidanza. In combinazione con opzioni non farmacologiche, può essere efficace nel prevenire e gestire i sintomi dell'emicrania.

Nonostante studi più vecchi che citavano la preoccupazione per la restrizione della crescita fetale e l'aumento della perdita di sangue al momento del parto, una nuova ricerca mostra che non è necessario smettere di usare triptani durante la gravidanza. Ma i dati sulla sicurezza dei triptani non sono conclusivi. Nell’ambito della famiglia dei triptani, la più ampia quantità di dati a favore della sicurezza riguarda il Sumatriptan, che può quindi essere consigliato quando l’attacco emicranico è particolarmente intenso. 

Il “blocco” di nervi attraverso iniezioni nel cuoio capelluto di anestetici locali come la lidocaina può essere efficace e sicuro in gravidanza. La lidocaina liquida 4% può anche essere somministrata come spray nasale. 

Da considerare approcci non-farmacologici, come per esempio, l’utilizzo di neuromodulatori, che richiedono ovviamente l’intervento di centri specializzati. Ce ne sono diversi tipi, tra cui:

• E-TNS– an external trigeminal nerve stimulator (Cefaly)

• nVNS–anoninvasivevagalnervestimulator(Gammacore) 

• sTMS– a single-pulse transcranial magnetic stimulator (sTMS mini)

• REN – a remote electrical neuromodulator (Nerivio) 


Mal di schiena

Il mal di schiena è tra i più frequenti disturbi medici. Circa 80% degli adulti soffre di lombalgia in un determinato momento della vita. La maggior parte dei pazienti che soffrono di lombalgia tendono ad avere episodi ricorrenti. La forma cronica colpisce fino al 23% della popolazione mondiale, con una recidiva stimata tra 24% e 80% a un anno.

Uno dei compiti del neurologo è determinare se il dolore dipende da una malattia della colonna vertebrale o se invece è un disturbo benigno, che non richieda interventi e che si risolva spontaneamente. 

Il dolore è spesso locale, nella zona lombare e, benché non ben circoscritto, è in genere limitato alla zona affetta della colonna. A volte il dolore è proiettato (nel linguaggio tecnico “riferito”) al fianco mediale, all'anca laterale, all'inguine, alle natiche inferiori e alle cosce anteriori o posteriori. Il dolore di questo tipo è solitamente diffuso e ha una qualità profonda, d’intensità simile a quella del dolore locale. 

In caso di stiramento, irritazione o compressione di una radice spinale, il dolore si irradia a distanza. Questo avviene in circa il 4% dei soggetti con dolore lombare. Il dolore è d’intensità maggiore e non più locale ma esteso al territorio di una radice: gluteo, faccia posteriore della coscia e gamba fino al lato esterno del piede (radice S1); gluteo faccia postero-laterale della coscia, gamba laterale e parte interna della caviglia e piede fino all’alluce (radice L5); gluteo laterale, coscia anteriore-laterale, regione inguinale, parte mediale del ginocchio e gamba (radice L4). Tosse, starnuti, sforzo per evacuazione di feci e soprattutto movimenti del rachide tipicamente evocano questo dolore. Il medico può provocare il dolore con manovre che allungano la radice del nervo, per esempio con il sollevamento della gamba tesa. Le cause, in ordine decrescente di frequenza, sono: ernia del disco intervertebrale, spondilolisi (scollamento o frattura delle parti interarticolari o della vertebra), o spondilolistesi (scivolamento della vertebra dalla sua posizione normale). 

Nei pazienti con grave costrizione circonferenziale della cauda equina (stenosi lombare), il dolore si accompagna a riduzione o perdita della sensibilità alle gambe e caviglie, con debolezza muscolare. La compromissione sensori-motoria e il dolore sono scatenati dalla posizione eretta e dal camminare. Tipicamente il camminare accentua progressivamente il dolore fino al punto che il soggetto è costretto a fermarsi (claudicatio). Sedersi allieva il dolore. La stenosi spinale è relativamente rara (circa 3%) e in soggetti più anziani.

C’è inoltre un dolore derivante da spasmi muscolari, che si manifesta solitamente in relazione all'irritazione spinale locale. La contrazione muscolare può essere considerata come un riflesso nocifensivo, cioè di protezione delle parti malate contro i movimenti dannosi. Ma la contrazione muscolare prolungata o cronica può dare origine a un dolore locale sordo, a volte a crampi. 

Come sopra accennato, il dolore è spesso associato a cause benigne o aspecifiche. Da considerare anche che stress, depressione e ansia costituiscono un rischio di sviluppare dolore cronico. È importante condurre una valutazione psicosociale in tutti i pazienti che presentano sintomi di dolore cronico e gestire attivamente l’eventuale disturbo dell'umore.

In generale, il dolore muscoloscheletrico può essere gestito con interventi non farmacologici, che sono quelli da raccomandare inizialmente. Esempi includono: la fisioterapia, che ha la più forte base di prove di efficacia e è quindi la modalità di trattamento preferita; approcci psicologici; terapie complementari che hanno scarsa o nulla evidenza di efficacia e spesso il loro uso è promosso con operazioni di marketing che hanno poco di medico e scientifico, ma dato il loro profilo di sicurezza e il probabile effetto di contribuire ad alleviare la tensione psichica e muscolare in molti casi possono essere suggerite.

Può essere necessaria o opportuna (per esempio, per affrontare importanti impegni di lavoro) una terapia farmacologica, che non sarà curativa, ma potrà essere efficace nell’alleviare temporaneamente il dolore. Sono da preferire gli analgesici non oppioidi, come il paracetamolo o i farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS). I rilassanti muscolari sono spesso usati ma comportano il rischio di sedazione. Gli oppioidi non sono raccomandati per il dolore muscoloscheletrico cronico, poiché sono farmaci ad alto rischio, con pochissime prove di beneficio a lungo termine in questi disturbi. Al paziente possono essere prescritte 6 settimane di terapia con paracetamolo o FANS e modifica dello stile di vita (moderata attività fisica, evitando quelle attività che esacerbano il dolore). In alcuni casi vengono utilizzate iniezioni locali di glucocorticoidi, da considerare solo dopo un periodo di prova di 4-6 settimane di terapia conservativa fallita. Un prerequisito di questa opzione è la RMN lombo-sacrale. Da considerare che questi trattamenti locali possono aiutare ad accelerare il sollievo dal dolore a breve termine ma non alterano i risultati a lungo termine. Sebbene somministrati frequentemente, non c’è dimostrazione invece di alcuna efficacia per i glucocorticoidi somministrati per via sistemica (ad es. prednisone intramuscolo).

Non è richiesta (al di fuori di particolari condizioni di seguito indicate) alcuna valutazione di imaging, nonostante sia diffuso l’uso di prescrivere una RMN lombo-sacrale. Uno studio recente dimostra che una RMN precoce (per esempio per un dolore lombare acuto) non migliora i vantaggi della condotta medica e è potenzialmente rischiosa perché espone a interventi dannosi, come un eccesso di chirurgia o l’uso di oppiacei (Jacobs et al. 2020).

Gli interventi chirurgici sono infati raramente appropriati nel contesto acuto. Gli interventi chirurgici per la lombalgia cronica (ad esempio, fusione spinale lombare, laminectomia, discectomia) sono controversi. La chirurgia è comunemente usata nei pazienti con sintomi radicolari recalcitranti alla cura non operatoria, in quelli con claudicationeurogena da stenosi spinale lombare e in quelli con deficit neurologici sostenuti o in peggioramento. Studi che hanno confrontato la chirurgia con interventi strutturati non chirurgici, inclusa una componente cognitivo comportamentale, hanno mostrato risultati funzionali simili.Ma, come prevedibile, gli effetti avversi sono molto più frequenti con la chirurgia. La chirurgia rimane un’opzione se altri interventi non hanno avuto successo.

Alcune caratteristiche del quadro clinico costituiscono “segni di pericolo”, che richiedono una strategia di valutazione più attiva e l'imaging (RMN e/o TC) per escludere eziologie preoccupanti come infezioni o tumori maligni. Esempi di “pericolo” includono: perdita motoria o sensitiva progressiva; deficit neurologici (anestesia a sella, debolezza muscolare); ritenzione o incontinenza urinaria, incontinenza fecale; trauma; uso prolungato di corticosteroidi; età superiore a 70 anni; osteoporosi; procedura spinale negli ultimi 12 mesi; uso di droghe per via endovenosa, immunosoppressione, intervento chirurgico alla colonna lombare a distanza; storia di cancro metastatico; perdita di peso inspiegabile (Will, Bury, and Miller 2018).

Alcuni pazienti con lombalgia acuta continuano a sviluppare una lombalgia cronica. I fattori di rischio per tale progressione includono: obesità (BMI> 30); sesso femminile; età avanzata (> 65 anni); livello di istruzione inferiore; occupazioni fisicamente impegnative; fattori psicosociali, come ansia e depressione. In questi casi è necessario mettere in atto misure di prevenzione.


Informazioni utili, anche di ginnastica posturale, si possono trovare qui: https://eldergym.com/lower-back-pain-exercises/

 

 

Jacobs, Josephine C, Jeffrey G Jarvik, Roger Chou, Derek Boothroyd, Jeanie Lo, Andrea Nevedal, and Paul G Barnett. 2020. “Observational Study of the Downstream Consequences of Inappropriate MRI of the Lumbar Spine.” Journal of General Internal Medicine 35 (12): 3605–12.

Will, Joshua Scott, David C. Bury, and John A. Miller. 2018. “Mechanical Low Back Pain.” American Family Physician98 (7): 421–28. https://doi.org/10.1007/978-3-642-28753-4_101227.

Neurogenesi

Un recente articolo della prestigiosa rivista Nature ripropone il tema della neurogenesi e ci induce a fare un breve commento (Denoth-Lippuner and Jessberger 2021). Che il cervello, a differenza di altri organi, non producesse nuovi neuroni una volta completato il suo sviluppo nell’infanzia è stato una sorta di dogma, appena messo in dubbio circa 50 anni fa a seguito di dati circa la comparsa di nuovi neuroni nel cervello di ratto adulto (Altman and Das 1965). Da allora la questione è rimasta controversa e trascurata, solo riaccesa da uno studio che dimostrò la neurogenesi in scimmie adulte (Gould et al. 1998), seguito poi da altri studi fortemente suggestivi di neurogenesi anche nel cervello umano adulto (Eriksson et al. 1998). Da allora la neurogenesi nell’uomo è stata riportata da altri studi. 

C’è quindi ora un generale consenso sulla presenza di neurogenesi nel cervello umano adulto, nonostante ancora manchi una definitiva, univoca conferma. Il problema è di natura metodologica. La identificazione di nuovi neuroni si basa su tecniche istologiche, cioè su prelievi di tessuto con ovvi ostacoli per gli studi sull’uomo che sono limitati ad analisi post-mortem.  La neurogenesi è stata invece ampiamente dimostrata nel regno animale, dai crostacei ai vertebrati superiori, compresi gli uccelli, i roditori e primati. Nei roditori, la neurogenesi degli adulti si trova principalmente in due regioni del cervello, la zona subventricolare, che riveste i ventricoli laterali, il giro dentato dell'ippocampo. 

Lasciamo comunque gli aspetti tecnici per dare un’idea di quale possa essere la rilevanza di questo fenomeno per la nostra vita quotidiana e per la terapia riabilitativa. Conviene fare un passo indietro e con ipersemplificazione ricordare che ciascun nostro comportamento è basato sulla comunicazione tra neuroni. Quando accidentalmente mettiamo le dita su un oggetto bollente ritraiamo il braccio, senza pensarci su. La risposta motoria è basata sull’attivazione di un circuito neurale ai cui estremi ci sono da una parte recettori di calore e dall’altra i muscoli. Comportamenti ben più sofisticati si basano ugualmente sulla connessione tra neuroni, con la differenza che le connessioni sono enormemente più complicate e formano una rete di complessità impensabile. Supponiamo, per esempio, di passare davanti a una pasticceria. L’odore ci fa venire l’acquolina in bocca insieme alla voglia di mangiare ed entriamo dentro il negozio. Questo vuol dire che ci deve essere una connessione tra i recettori dell’olfatto della mucosa, le ghiandole salivari, aree diverse del cervello che ci ricordano una precedente esperienza positiva legata a quell’odore e altre aree cerebrali che ci permettono di attivare il comportamento decisionale e motorio che ci porterà a ottenere il dolce. La risposta che abbiamo a quel tipo di stimolo (buon odore della pasticceria) cambierà in base al contesto, alla qualità delle esperienze precedenti, al nostro metabolismo energetico, e a tante altre variabili. Il punto è che la risposta può cambiare nel tempo, la rete neurale si modifica, nuove connessioni sono formate e altre cancellate. È quindi una ipotesi sostanziale che la neurogenesi sia fondamentale per garantire questa plasticità. Ci sono prove che sia così? Le prime prove sperimentali della rilevanza funzionale della neurogenesi vengono da studi in animali da laboratorio: l'aumento della neurogenesi sembra essere associato a un miglioramento del comportamento, per esempio misurato in un contesto in cui gli animali devono ricordare il percorso migliore per raggiungere il cibo in un labirinto. 

Gli strumenti per modificare la neurogenesi sono molto sofisticati e solo menzionarli può risultare in un tecnicismo da addetti ai lavori. Basterà dire che si possono manipolare quei meccanismi comportamentali e biochimici che le neuroscienze ormai conoscono, anche se marginalmente. Allo scopo di questa breve nota, ci interessa sottolineare un punto chiave: vari fattori ambientali stimolano la proliferazione e la neurogenesi. È ampiamente dimostrato nei roditori che l'esercizio motorio e l'arricchimento ambientale migliorano la sopravvivenza delle cellule appena nate, promuovendo sia la memoria che l'apprendimento. Traslare questi risultati alle persone è difficile, ma tutti i dati concordano nel sostenere che nell’uomo il fenomeno sia sostanzialmente simile a quanto dimostrato negli animali. Per esempio, dati epidemiologici suggeriscono che la bassa scolarità o gli scarsi stimoli culturali (valutati in termini di numero di libri/giornali letti, frequentazione di eventi culturali in genere, etc) costituiscono un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi cognitivi. Questo dato, ormai confermato, è in linea con quanto abbiamo visto negli animali: gli stimoli esterni promuovono l’arricchimento della rete neurale e una rete più ricca è più facilmente adattabile a nuove esigenze o a supplire (cosiddetta riserva cognitiva) ad eventuali perdite di cellule per malattia o invecchiamento.

 

Altman, J, and G D Das. 1965. “Post-Natal Origin of Microneurones in the Rat Brain.” Nature 207 (5000): 953–56. https://doi.org/10.1038/207953a0.

Denoth-Lippuner, Annina, and Sebastian Jessberger. 2021. “Formation and Integration of New Neurons in the Adult Hippocampus.” Nature Reviews Neuroscience. Nature Research. https://doi.org/10.1038/s41583-021-00433-z.

Eriksson, Peter S., Ekaterina Perfilieva, Thomas Björk-Eriksson, Ann Marie Alborn, Claes Nordborg, Daniel A. Peterson, and Fred H. Gage. 1998. “Neurogenesis in the Adult Human Hippocampus.” Nature Medicine 4 (11): 1313–17. https://doi.org/10.1038/3305.

Gould, E, P Tanapat, B S McEwen, G Flügge, and E Fuchs. 1998. “Proliferation of Granule Cell Precursors in the Dentate Gyrus of Adult Monkeys Is  Diminished by Stress.” Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America 95 (6): 3168–71. https://doi.org/10.1073/pnas.95.6.3168.

Insonnia

Prima di pensare ai farmaci

 

L'insonnia è un disturbo del sonno comune. Con l'insonnia, potresti avere difficoltà ad addormentarti, a rimanere addormentato o a dormire bene. Troppo spesso l’insonnia è sottovalutata e affrontata con la richiesta di “medicine per dormire”.


È utile chiarire che gli attuali farmaci usati per indurre il sonno sono sostanzialmente sedativi, con significativi effetti collaterali sulle funzioni cognitive e la vigilanza durante il giorno. La Food and Drug Administration (FDA) ha approvato un nuovo farmaco (suvorexant), antagonista dei recettori dell’orexina, sostanze chimiche che sono coinvolte nella regolazione del ciclo sonno-veglia e svolgono un ruolo nel mantenere svegli. Si tratta di un farmaco con un meccanismo completamente diverso, relativamente specifico e promettente. Non mi risulta sia ancora approvato in Italia.

 

In ogni caso i farmaci sono l’ultima risorsa. Prima, bisogna cercare di capire le cause dell’insonnia. Una guida pratica in questo senso è pubblicata dal prestigioso National Institute of Mental Health - USA, (https://www.nhlbi.nih.gov/health/insomnia) da cui riporto alcuni passaggi 

Possibili cause di insonnia

L'insonnia a breve termine può essere causata dallo stress o da molti altri disordini:

1. problemi respiratori;

2. problemi cardiaci sono anche un rischio quando si ha l'insonnia cronica, comprese condizioni come aritmia, insufficienza cardiaca, malattia coronarica e ipertensione;

3. condizioni di salute mentale come ansia o depressione;

4. dolore cronico;

Prima dei farmaci

 Segui una buona igiene del sonno:

1. Rendi la tua camera da letto accogliente.  Dormi in un luogo fresco, tranquillo e buio. Evita di guardare la TV o guardare i dispositivi elettronici, poiché la luce proveniente da queste fonti può interrompere il ciclo sonno-veglia;

2. Vai a dormire e svegliati alla stessa ora ogni giorno, anche nei fine settimana. Se puoi, evita un programma che cambia o altre cose che potrebbero disturbare il tuo programma di sonno;

3. Evita caffeina, nicotina e alcol vicino all'ora di coricarsi. Sebbene l'alcol possa rendere più facile addormentarsi, può farti avere un sonno che tende ad essere più leggero del normale. Questo rende più probabile che ti sveglierai durante la notte;

4. Fai un'attività fisica regolare durante il giorno, almeno da 5 a 6 ore prima di andare a letto. Esercitarsi vicino all'ora di coricarsi può rendere più difficile addormentarsi;

5. Evitare i sonnellini, soprattutto nel pomeriggio. Questo può aiutarti a dormire più a lungo la notte;

6. Mangia i pasti secondo un programma regolare ed evita le cene a tarda notte;

7. Limita quanto bevi vicino all'ora di coricarsi. Questo può aiutarti a dormire più a lungo senza dover usare il bagno;

8. Impara nuovi modi per gestire lo stress.  Segui una routine che ti aiuta a rilassarti e rilassarti prima di andare a letto. Ad esempio, leggi un libro, ascolta musica rilassante o fai un bagno caldo. Il medico può anche raccomandare la terapia di massaggio, la meditazione o lo yoga per aiutarti a rilassarti.  L'agopuntura può anche aiutare a migliorare l'insonnia, specialmente negli anziani;

9. Evitare alcuni farmaci da banco e da prescrizione che possono disturbare il sonno (ad esempio, alcuni farmaci per il raffreddore e l'allergia) e soprattutto gli steroidi

 

Emorragia Intracerebrale Spontanea

La American Heart Association/American Stroke Association ha aggiornato (maggio 2022) le linee guida per il trattamento della emorragia spontanea intracerebrale. Riassumo i punti chiave della pubblicazione (Greenberg, Steven M., et al. "2022 Guideline for the Management of Patients With Spontaneous Intracerebral Hemorrhage: A Guideline From the American Heart Association/American Stroke Association." Stroke: 10-1161). In neretto mio breve commento esplicativo, con parole non-tecniche.

 

“Le linee guida raccomandano lo sviluppo di sistemi regionali che forniscano cure iniziali per l'emorragia intra-cerebrale (ICH) e la capacità, se del caso, di un rapido trasferimento in strutture con cure neurocritiche e capacità neurochirurgiche.” Quindi: nel sospetto andare subito al Pronto Soccorso di un ospedale attrezzato.

.               

            “I regimi di trattamento che limitano la variabilità della pressione sanguigna e raggiungono un controllo regolare e sostenuto della pressione sanguigna sembrano ridurre l'espansione dell'ematoma e produrre un migliore risultato funzionale”. Quindi: misurare la pressione ed eventualmente usare farmaci per abbassarla.

 

"ICH durante anticoagulanti ha mortalità e morbilità estremamente elevate. Per l'inversione acuta dell'anticoagulazione dopo ICH, è suggerito l'uso del complesso protrombinico concentrato per l'inversione degli antagonisti della vitamina K come warfarin, idarucizumab (Praxbind) per l'inversione dell'inibitore della trombina dabigatran e andexanet alfa (Ondexxya) per l'inversione degli inibitori del fattore Xa come rivaroxaban, apixaban ed edoxaban.” Quindi: in caso di emorragia in corso di trattamento anticoagulante sospendere l’assunzione e usare questi antidoti (in ospedale).

 

“Diverse terapie ospedaliere che sono state storicamente utilizzate per trattare i pazienti con ICH sembrano non conferire alcun beneficio o danno. Per il trattamento di emergenza o di terapia intensiva dell'ICH, i corticosteroidi profilattici o la terapia iperosmolare continua sembrano non avere alcun beneficio per l'esito, mentre l'uso di trasfusioni piastriniche al di fuori dell'impostazione di un intervento chirurgico d'urgenza o di una grave trombocitopenia sembra peggiorare l'esito. Considerazioni simili si applicano ad alcuni trattamenti profilattici storicamente utilizzati per prevenire complicazioni mediche dopo ICH. L'uso di calze graduate per il ginocchio o la coscia da sole non è una terapia profilattica efficace per la prevenzione della trombosi venosa profonda e i farmaci antiepilettici profilattici in assenza di prove di convulsioni non migliorano il controllo delle convulsioni a lungo termine o l'esito funzionale.” Quindi: questi trattamenti, spesso ancora in uso, sono da evitare.

 

“Approcci minimamente invasivi per l'evacuazione di ICH sopratentoriali ed emorragie intraventricolari rispetto alla sola gestione medica hanno dimostrato riduzioni della mortalità, … ma i risultati sulla funzionalità residua sono neutrali. Per i pazienti con emorragia cerebellare, le indicazioni per l'evacuazione chirurgica immediata con o senza un drenaggio ventricolare esterno per ridurre la mortalità ora includono un volume maggiore (>15 ml) oltre alle indicazioni precedentemente raccomandate di deterioramento neurologico, compressione del tronco cerebrale e idrocefalo.” Quindi: l’intervento chirurgico è limitato a grosse emorragie cerebellari. Da valutare con prudenza l’intervento in altre aree cerebrali.

 

"La riabilitazione e il recupero sono importanti per l'esito e la qualità di vita. Si raccomanda l'uso di un'assistenza coordinata multidisciplinare in team ospedaliero con una valutazione precoce della pianificazione della dimissione tendenzialmente precoce per ICH da lieve a moderata. L'implementazione di attività riabilitative come lo stretching e l'allenamento funzionale può essere considerata da 24 a 48 ore dopo un ICH moderato; tuttavia, la mobilizzazione precoce aggressiva entro le prime 24 ore dopo l'ICH sembra peggiorare la mortalità a 14 giorni. Più studi condotti non hanno confermato un precedente suggerimento che la fluoxetina potrebbe migliorare il recupero funzionale. La fluoxetina ha ridotto la depressione in questi studi, ma ha anche aumentato l'incidenza delle fratture”. Quindi: mobilizzazione molto dolce entro le 24 per casi lievi, poi incrementare.

Ictus: cosa fare subito

estratto e adattato da: https://www.stroke.nih.gov/materials/needtoknow.htm

 

Se improvvisamente hai: 

 

Potresti avere un ictus

Poiché l'ictus danneggia il cervello, spesso senza dolore, potresti non renderti conto che stai avendo un ictus. Anche le persone intorno a te potrebbero non saperlo. La tua famiglia, i tuoi amici o i tuoi vicini potrebbero pensare che tu sia confuso. Potresti non essere in grado di chiamare il 118 da solo. Ecco perché tutti dovrebbero conoscere i segni dell'ictus e sapere come agire rapidamente.


Non aspettare 

Non aspettare che i sintomi migliorino o peggiorino. Se credi di avere un ictus, o qualcuno che conosci sta avendo un ictus, chiama immediatamente il 118 e vai al Pronto Soccorso, possibilmente di un Ospedale in cui c’è la Stroke Unit. Evita subito di chiamare il medico di base o di andare in piccoli presidi ospedalieri locali, potrebbe essere solo una perdita di tempo.


Dieta e prevenzione delle demenze

Riprendo dal National Institute on Aging, di NIH, Bethesda, USA (https://www.nia.nih.gov/news/blood-lipids-involved-protective-effect-alzheimers-disease-gene-suggest-new-targets-prevention?utm_source=nia-eblast&utm_medium=email&utm_campaign=news-20220627), del 23 Giugno 2022, una nota sul potenziale ruolo della dieta nella prevenzione dell’Alzheimer.

“Una nuova ricerca rileva che alcuni tipi di lipidi nel sangue svolgono un ruolo nel modo in cui il gene dell'apolipoproteina E (APOE) influenza il rischio di Alzheimer. Uno studio recentemente pubblicato in Alzheimer's & Dementia®: The Journal of the Alzheimer's Associatio,n esamina più da vicino la connessione tra i lipidi nel sangue, due forme di APOE e l'Alzheimer. Questo studio suggerisce che specifici lipidi nel sangue associati all'APOE ε2 potrebbero potenzialmente essere nuovi bersagli per la prevenzione dell'Alzheimer.

Il gene APOE è il più forte fattore di rischio genetico per l'Alzheimer. Due forme del gene APOE sono influenti: la forma ε4 aumenta il rischio, mentre la forma ε2 fornisce resilienza o protezione contro la malattia. Non è ancora del tutto chiaro come le varie forme di APOE modifichino il rischio.

I ricercatori hanno analizzato l'associazione tra più di 500 lipidi nel sangue e APOE ε2 e ε4 per sapere quali lipidi influenzano gli effetti di APOE ε2 e ε4 sul rischio e sulla resilienza dell'Alzheimer.

I risultati hanno mostrato che più di 200 lipidi erano associati con APOE ε2 e più di 100 erano associati conAPOE ε4.  Quando sono stati analizzati i lipidi specificamente associati all'Alzheimer, 68 sono stati associati con APOE ε2 e 24 con APOE ε4.

I ricercatori hanno scoperto che 11 lipidi hanno influenzato l'effetto protettivo dell'APOE ε2 contro l'Alzheimer e 14 hanno influenzato l'effetto dell'APOE ε4 sull'aumento del rischio per la malattia.

È importante sottolineare che tre degli 11 lipidi che hanno influenzato gli effetti protettivi dell'APOEε2 erano alchil diacilgliceroli. Gli alchil diacilgliceroli sono una classe naturale di lipidi che possono essere trovati nel fegato di diverse specie di squali e nel latte materno umano. Integrare una dieta con alchil diacilglicerolo può aumentare questi livelli di lipidi nel sangue e nelle cellule immunitarie.

Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche, l'identificazione di lipidi specifici come mediatori degli effetti protettivi dell'APOE ε2 può aprire nuove strade per prevenire l'Alzheimer, compresi gli interventi che utilizzano l'integrazione alimentare”.

 

Lo studio è importante e apre prospettive. Ma lo studio, per il modo in cui è statio condotto, suggerisce, non prova l’efficacia di questi lipidi. Comunque, l’eventuale effetto (ammesso che sia provato) è verosimilmente sulla prevenzione, non sul trattamento.

Al momento non c’è indicazione per l’uso di “integratori”, spesso commercializzati senza scrupolo. C’è indicazione invece per una dieta equilibrata (frutta, vegetali, poco sale, pochi grassi saturi, poco o niente zucchero, pane e pasta integrali, proteine da latticini e carni magri, o pesce) + esercizio https://www.nia.nih.gov/sites/default/files/diet-and-exercise-508.pdf

Catatonia

 

“Molti medici credono erroneamente che la catatonia sia una rara forma di schizofrenia, con bizzarre anomalie del comportamento motorio. Di conseguenza, la diagnosi viene spesso mancata e una persona con catatonia può essere trattata in modo inappropriato. Nel 2013, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione (DSM-5) ha rimosso la catatonia come sottotipo di schizofrenia e l'ha elencata come una caratteristica di diverse condizioni psichiatriche e mediche.

Ci sono diversi motivi per cui la catatonia spesso non viene riconosciuta. In primo luogo, la sua gravità varia da sottili anomalie comportamentali, che durano solo ore, a forme maligne, a volte letali. In secondo luogo, le caratteristiche cliniche possono fluttuare, in periodi di tempo variabili, tra stupore e grave agitazione. Oppure un paziente può passare da una conversazione confortevole a un mutismo che persiste per ore. I pazienti con catatonia non interagiscono con l'ambiente circostante o con altre persone, rendendo difficile per il medico ottenere un'anamnesi e completare un esame dello stato mentale. Questa presentazione incostante e imprevedibile ha contribuito a variare le stime di prevalenza. La catatonia è comune nelle sale di emergenza psichiatrica e nelle unità di degenza, dove le stime di prevalenza variano dal 9 al 30% 

I segni catatonici possono emergere rapidamente, raggiungendo un livello massimo entro poche ore (nella catatonia acuta), o possono svilupparsi lentamente, nell'arco di giorni o settimane. Gli episodi catatonici possono ripresentarsi periodicamente, o possono persistere per anni, come si è visto in alcuni pazienti con disturbi dello spettro della schizofrenia o disturbi dello sviluppo neurologico, incluso il disturbo dello spettro autistico. Il decorso della catatonia dovuta a intossicazione o ad altre condizioni mediche dipende dal decorso della condizione sottostante. 

La presentazione più comune della catatonia al pronto soccorso è la mancata risposta alle domande (mutismo) e pochissimo movimento spontaneo (stupore). Questi comportamenti psicomotori, che sono elementi essenziali della catatonia, devono essere distinti dal delirium “tranquillo”, caratterizzato prevalentemente da ridotta vigilanza e cognizione. 

Una seconda presentazione della catatonia in questo contesto è caratterizzata da livelli rapidamente fluttuanti di comportamento psicomotorio, che vanno dal mutismo e dallo stupore al posturing, e all'agitazione. Questa forma di catatonia può essere dovuta all'ingestione di sostanze (in particolare cannabis o cocaina) o ad altre condizioni mediche 

Una terza presentazione catatonica è la rigidità accompagnata da movimenti ripetitivi e senza scopo, come dondolarsi avanti e indietro (stereotipie). Questa forma si riscontra di solito nelle persone con disturbi dello spettro autistico o schizofrenico. 

La catatonia richiede ampi sforzi diagnostici per le diverse potenziali cause. Da considerare l’encefalite anti-N-metil-d-aspartato (NMDA) che può produrre catatonia acuta prima di progredire verso l'encefalopatia o le convulsioni. In secondo luogo bisogna considerare che diversi disturbi metabolici e lesioni cerebrali focali possono manifestarsi come catatonia. In terzo luogo, la catatonia può essere dovuta a farmaci prescritti o usati illecitamente, specialmente nei pazienti che interrompono uso prolungato di benzodiazepine, alcol o oppioidi. In quarto luogo, nei pazienti critici, la catatonia può persistere all'ombra del delirium, perché i segni psicomotori della catatonia spesso non vengono riconosciuti in un paziente delirante con livelli fluttuanti di attenzione e cognizione. 

Alcune misure di trattamento terapeutico si applicano a tutti i pazienti con catatonia: monitorare la pressione sanguigna, la temperatura e l'equilibrio dei liquidi e garantire l'idratazione e la nutrizione. Le misure generali di cura includono la profilassi per tromboembolia, ulcere da pressione, infezioni e contrazioni muscolari.

Il trattamento primario della catatonia deve essere iniziato il prima possibile dopo che la condizione è stata identificata, poiché la probabilità di una risposta diminuisce con il tempo. Sia la somministrazione di lorazepam che la terapia elettroconvulsiva (ECT) portano a una risposta nel 60-100% dei pazienti. ECT è efficace anche dopo una risposta insufficiente alla somministrazione di benzodiazepine.  La dose di lorazepam può essere aggiustata, a volte al di sopra della dose standard (fino a 16 mg al giorno)”.